sabato 25 giugno 2011

Penso alle promesse che nessuno mi ha fatto, ché io posso sperare solamente, di essere tradita.
Tutto fila liscio, il camion che raccoglie la carta carica un bidone troppo pieno e lascia volare a terra brochure con gli sconti, scatole per la pizza e riviste.
Un uomo sulla settantina, in canottiera, pantaloncini e guanti di lattice, esce da chissà dove, raccoglie tutto e lo rimette nel bidone.
Ti ammiro mentre fumo la cenere sui rimasugli di capelli che hai in testa. Ammiro la tua abnegazione, la pulizia sbrigativa e l'organizzazione che dimostri. Se incrociassi lo sguardo di qualcun altro, lo inviterei ad applaudirti, non posso battere le mani da sola, mi rende troppo triste.
Solo un appunto, Gentile Signore, hai buttato i guanti di lattice nel bidone sbagliato.
Le nubi si tingono di verde, io non ho voglia di tornare a casa. Non ho voglia di tornare da nessuna parte.
Mi vedo con una camicia da notte di cotone, a fiori rosa, con tre bottoncini al centro della scollatura. Cammino tenendo un piatto con la mano sinistra. Con la destra prelevo ritmicamente parte del contenuto e lo infilo in bocca. Ingoio palazzi e finestre. Tutti gli umani affacciati scivolano dentro le mie fauci grondanti miele e glucosio liquido. Prendo la direzione del tramonto. Fumo bianco esce dalla mia bocca e dal taglio del ventre, mi rende una figurina ridicola. Aggiungo ciabatte di velluto rosa e bigodini nei capelli ad annunciare la notte. Voglio poter raccontare una storia. Voglio avere dei ricordi. Procedo come una sagoma da riempire di luce, vado a bruciarmi la pelle. La notte non arriva mai. La notte ha guanti di lattice. Non arriva, non arriva mai.



Jefferson Airplane - White rabbit

martedì 21 giugno 2011

Canzone per L.

L. ha un dolore al mignolo del piede destro.
L. ha il senso della comunità e non teme l'altro.
L. bussa alla porta del vicino di casa.
L. ha un abito arancione con le gale alle maniche.
L. sente grande affetto per i canarini.
L. si ciba di radicchio selvatico.
L. nuota a delfino per due ore al giorno.
L. dorme otto ore per notte.
L. mangia cereali a colazione.
L. ha delle fitte all'occhio sinistro.
L. è assistente di volo.
L. gioca con il lego.
L. ha trovato il mattoncino mancante.

Il padre di L. è orgoglioso di lei.
La madre di L. è stata un'ottima insegnante di igiene intima.

L. sale al cielo tutti i giorni.
L. si prepara il tè la domenica pomeriggio.
L. va al cinema da sola.
L. ama il silenzio della sala e il buio.
L. immagina di essere divorata viva da granchi mutanti.
L. è andata all'asilo solo per un anno.
L. ascolta musica nella notte.
L. ascolta musica con la finestra aperta.
L. aspetta qualcuno che la insegua.
L. suona il tuo campanello.
L. ti chiede se puoi aprire.
L. urla apri.
L. urla apri.
L. scuote il portone.
L. urla apri.
L. si addormenta sugli scalini.
L. ha le cuffie con volume altissimo.
L. scrive tutto quello che le capita.
L. scrive tutto quello che le dicono.

L. scrive l'elenco dei suoi indumenti catalogati nelle seguenti categorie: biancheria intima, calze, sopra, sotto, scarpe.
Le categorie vengono inserite in una tabella e incrociate con i giorni della settimana.
Lo scopo di questa operazione è riuscire a non indossare lo stesso completo per più di un giorno ogni sette.
Tutti i compiti svolti da L. hanno lo scopo di mantenere il buon andamento della sua vita quotidiana.

L. si sveglia sugli scalini.
L. ha un dolore all'anca destra.
L. siede al tavolino di un bar.
L. ordina caffè e due tranci di torta alle carote.
L. entra nella toilette del bar.
L. tira fuori asciugamano, detergente per il viso, deodorante, spazzolino e dentifricio.
L. si lava con acqua fredda.
L. paga il conto.
L. torna a casa.
L. ha dimenticato di pagare il gas.
L. si siede vicino alla finestra.

Dietro la tenda, con un'altra tazza di caffè, ascolta le trasmissioni del mattino, spalle al televisore.

L. prende il telefono.
L. fa il tuo numero.
L. parla alla tua segreteria.

Ogni minuto che riempie delle sue parole sarà cancellato al primo respiro.
Da te.

L. continua a registrare senza sosta.
L. aggiorna la tabella degli indumenti.
L. prende appunti sulla conversazione con il barista.
L. trascrive le sue frasi alla segreteria.
L. scosta la tenda.

Un uomo su una scala sta imbiancando l'appartamento di fronte.
Un lampadario con cristalli pendenti oscilla e colpisce la scala.
Una goccia cade con rumore di metallo.
Una lacrima acida buca gli strati degli indumenti già catalogati per oggi.
E maglia gonna e collant saranno relegati a oggetti casalinghi.

L. scrive la sua lettera quotidiana indirizzata a te.
L. uscirà tra poco per imbucarla.
L. conserva i francobolli in un cassetto della scrivania.
L. ha la valigia pronta.
L. parte in anticipo.

L. scrive: e se non sai fare altro che ripetere, dovresti accontentarti di quel buio che precede il film, del brusio delle videocassette e dell'eco dei passi dei granchi sul pavimento di marmo.
Rannicchiata sulla poltrona, le ciabatte sono già stracciate.
Lenti onesti animali iniziano a scalare lo schienale.
Le chele accarezzano i capelli, sistemano il taglio.
In tre, aggirano il collo per agganciarsi alla bocca e lacerare la lingua.

L. continua a scrivere.

Deve ancora compilare l'elenco dei cibi consumati durante il giorno.
Dei cartelloni osservati per strada.
Delle canzoni ascoltate.

L. è in ritardo.
L. non vorrebbe mai lasciare un lavoro a metà.
L. guarda la luna che si immerge velocemente in un latte di fumi chimici.







Lonely day – System of a down

giovedì 16 giugno 2011

Let paranoia in

L. entra nel bar dove fa colazione un paio di volte alla settimana.
Il barista, pettinato come Big Jim, ha sì e no vent'anni ma ne dimostra quaranta; la scorge in mezzo a vecchi, impiegati e commesse e le prepara il cappuccino senza dire niente. Un dito sotto il bordo della tazza, a dire la verità: manca latte.
La proprietaria, capelli cotonati e un enorme crocifisso tra le pieghe del collo, gira tra i clienti con un bavoso in braccio.

“Buongiorno, Signora.”

“Buongiorno, L.”

Il bavoso starnutisce dentro il cappuccino. L. si scansa e ne infila mezzo nella scollatura. Si volta, bestemmiando sul reggiseno trasformato in tazza. Pensa di chiedere una cannuccia per poter raccogliere il liquido che staziona tra i seni ma, indovinando lo sguardo del tavolo di pensionati di fronte a lei, decide di assorbirlo con qualche fazzoletto di carta.
La signora le ballonzola accanto.

“Ci scusi, mi scusi, è così piccolo, ha sei mesi, è il mio nipotino. Mia figlia è andata a un colloquio di lavoro, si sa, con un solo stipendio non si campa una famiglia.”

“Nemmeno un individuo, Signora.”

“Eh, ma quando ci sono i figli, cara...posso darti del tu? Dai, prendilo in braccio. Senti quanto pesa...”

“Grazie Signora, come se avessi accettato.”

Nel senso dell'accetta.

“Ti faccio rifare il cappuccino, cara?”

“No, grazie, tanto non mi andava stamani.”

L. cerca una via d'uscita, per fortuna fuori piove. La matrona le corre dietro col bambino.

“E tu, non hai una famiglia?”

L., incrociando le dita nella tasca dei jeans, fa cenno di no. La dolce capobranco china la testa, strizza gli occhi porcini e distende la bocca in un sorriso compassionevole.

Se tu fossi mia madre, avresti già ricevuto un colpo d'accetta sul taglio delle labbra e un altro a spaccare in due la testolina da media statistica di donna italiana nata tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta. Ti ci metto dentro la carta assorbente, cara, così ripuliamo quella inutile pappa grigia contenuta nella tua scatola cranica. La sostituisco con penne al pomodoro, basilico e un po' di parmigiano. Richiudo con due strisce di silicone trasparente.

Ora porta via il tuo frutto bagnato di schiavitù e fammi uscire.
Vedrai che, quando sarà grande, ti strangolerà con la catenina d'oro, quella con il ciondolo ad angelo custode che gli avrai senz'altro regalato per la prima comunione.
Speriamo. Sarebbe un bel passo avanti per l'evoluzione della specie.

“Buongiorno, Signora.”




(I'll cast a shadow - Pantera)

giovedì 9 giugno 2011

Il male minore

Acuminati occhi di vetro su cui scivola olio santo. Penso a questo.
Il segno della croce e il senso del tempo se ne vanno a braccetto verso l'orizzonte dorato del tuo mare di luna. Perdi scaglie di pelle viva, lasci tracce di carne zoppa. Su fibre di nervi, rimbalzano grida bianche, assolate.
Ti vedo lanciare nel buio i tuoi pesi. Io mi scanso per rimanerti accanto.
Le luci si rapprendono nella notte, pronte a diventare nulla dentro il sapore zuccherino di un'alba turistica, frantumata in voci gotiche di ciambelle di salvataggio.
Scriverai sul mio corpo i tuoi racconti con uno sfilettatore di lusso, forgiato e rivettato, in acciaio inox.
Non mi apparecchierò con posate d'argento perché tu possa infilzare i miei occhi.



Non siate gentili con me.

Io fraintenderò.
Vi metterò tra i miei santini.
Mendicherò una grazia.
Prometterò menzogne.
Smetterò di scrivere, ovvero di fare ciò che non si sa.
Smetterò di far credere chissà cosa agli specchi di casa, ché appena mi vedono, rimandano l'immagine di quella che fa gli autoritratti fotografici al fine di vedere, con occhio neutro, quello che è riuscita a fare di quello che gli altri hanno fatto di lei (giusto per non farsi mancare la citazione, fa sempre raffinato citare Sartre, tanto nessuno lo legge, nemmeno io).

Dopo l'ultimo temporale, ho pelle di madonnina fosforescente e cresta di capelli viola.
Sono pronta per il comodino, come disse un giorno il magnifico tossico del mio cuore.
Non c'è che il cuore e solo il cuore da pensare e rime di chewingum appiccicato e indurito.
Vado a velocità siderali, i nomi delle stelle mi inseguono come alfabeti in composizioni linguistiche inerti.
Posso frenarmi solo tappando tutte le ferite e le feritoie.
Se scoppio, pace.
Pace.
Non si trattengono schegge di ossa, ossa tritare, polvere di ossa e midollo osseo - scheletro che si svuota, direi.

Vi prego venite a salvarmi, illuminate i miei denti cavi.
Insegnatemi la scienza per trionfare sulle lusinghe della carneficina di me.


Ho un tampax che filtra il nero di seppia.
Lo conservo tra le carte e i Lepisma saccharina, detti pesciolini d'argento.
Entrambi odiano la luce e mangiano zucchero.
Anch'io mangio cibi bianchi e vesto di nero.
Perché io non so quello che dico. Il si dice passa su di me e dentro e, a volte, fuori mi avvolge come edera secca ancora colma di vitali ventose, ami sulla mia pelle.

Non siate gentili con me.

Come vulcano, do vita a nuove bocche ma non è caldo quello che esce, è pesce marcio vissuto in acque gelide, molle come cazzo moscio, umido come cazzo moscio.
Che finisca questa frenesia anatomica.

Tappatemi la bocca, non scriverò di nessun animale, non scriverò con i polsi ammanettati.
Fatemi una grazia di scambio, vi donerò i cordoni ombelicali di mantenute miliardarie esperte in balli caraibici.
Non lasciatemi sola a mangiare legno e colla fino a scartavetrarmi l'esofago e morire di cibo fermentato in polmoni, cuore, costole mute, non più bianche.
Torturatemi per farmi tacere con filo di ferro fine e scotch nero gomma.
Schiacciatemi i capezzoli con il ferro da stiro a temperatura cotone, riempitemi la bocca di gnocchi di polistirolo da imballaggio, lasciatemi senza parole, senza lingua, senza alcuna espressione.
Recidete tutti i muscoli del mio volto.
Che non tradiscano alcuna emozione.
In azzurre, limpide tentazioni siate i miei maniaci assassini e mangiate il mio minestrone fuori stagione, ve ne preparo un piatto per le sere afose.

Stanchi, spossati, sfiniti, sarò io a imboccarvi e ridere del vostro impegno muscolare.

Non siate gentili con me.

Vi sostituirò con efficienza.
I want a new game to play e lo troverò.



(I want a new game to play, da Megalomania, Muse)

giovedì 2 giugno 2011

Il bambino di sei anni mi chiede cosa penso del mostro che ha in mano. È buffo. Non è buffo, dice. Macché buffo. E lo guarda. Fauci bianche spalancate. Denti da coccodrillo, corpo – celeste - da dinosauro, muscoli da rinoceronte. Scaglie lungo tutto il corpo e la coda, color giallo pallido. I mostri hanno colori pastello. Sanno di plastica e primavera. Di nontiscordardime e fiorellini di camomilla.
Gli adulti, mio padre e la madre del bambino, banchettano con teste d'agnello tagliate a metà. Lingua e cervello spaccati, bulbi oculari integri. L'occhio salta fuori dal piatto come un'oliva di gomma marrone.
Io puzzo di umanità come il sedile di un autobus. E sudore, muco, saliva si seccano sulla mia pelle screpolata e poi unta di crema alla calendula.
Il bambino ha staccato la testa del mostro con un solo, poderoso morso. Nello sforzo ha perso un incisivo. Il collo del mostro, celeste anche nell'anima, si colora di rosso. Una goccia, due. Io lo guardo. Il bambino non piange. Macché buffo. Non è buffo. E io rido, rido. Mi manca il fiato.
Se ci penso, mi manca il fiato.