giovedì 29 dicembre 2011

Stanotte una rana verde lucido e oro trasparente mi ha infilato la lingua in gola. La fine dell'anno sarà condita da salse all'aglio e funghi trifolati. Cucchiai pieni di maionese saranno spalmati sulle mie lenzuola e io ti aspetterò grondante latte condensato dalle mie narici, le mutande inchiodate alla pelle, i peli arrotolati intorno ai chiodi. Ci metterò più di una notte a prepararmi. Ma infine, mamma, saprai riconoscermi lo stesso. Tu così bella e scura in volto. Con i tuoi capelli composti, le mollette a trattenerli, una a destra, una a sinistra, i tuoi occhi bruni, la pelle liscia, le labbra anemiche, impolverate di farina. Mi offrirò di portarti vassoi di carne cruda farcita di agrumi, foglie di acero e fango rosso di cipolla fermentata. Come sei bella, mia madonna della morte dell'anima, come vorrei essere parte di te come lo sono stata un tempo ma io sono più leggera dei tuoi giorni ciechi, trascorro come un fantasma nei tuoi corridoi tappati. Ti dico un addio d'amore, distillato e puro come il frutto di una quercia, cibo da maiali, mamma, cibo del re.




Black hole sun - Soundgarden

mercoledì 14 settembre 2011

Saluto e mi allontano. Volto la schiena e mi allontano. Alzo i tacchi cammino faccio qualche passo mi fermo l'avrò detta quella cosa quella cosa l'avrò detta e se non l'ho detta come la prenderà cosa penserà di me forse penserà che ho fretta che sono distratta non che sono maleducata e egoista ma l'ho sicuramente detta quella cosa io non ne sono certa provo subito a telefonare scusa sai non sono sicura ma ti ho salutato prima? No scusa sai è che sono così distratta non vorrei sembrarti trascurata. Ma guarda che mi hai salutato più volte. Ah scusa scusa è che ho tanti pensieri per la testa e scusa penserai che sono una stupida. No figurati sì certo che lo pensa però almeno adesso sono sicura che ho detto ciao cioè non so se ho detto ciao o buonasera o magari buona serata e avrò detto a domani? Cioè l'appuntamento di domani sarà chiaro? Ma lo vedremo domani. Se non viene vuol dire che non ci siamo capiti. Già. Sono stata svagata non ho posto attenzione a tutte le parole una per una ci siamo salutati all'inizio ho chiesto come stai? Per non essere considerata troppo egoista. Ho ascoltato la risposta? Non mi ricordo come sta. Avrà detto bene insomma si va avanti come sempre più o meno bene sì bene dai. Cosa può aver detto? Mi sarei ricordata se avesse detto qualcos'altro. Sì insomma una malattia o magari la nascita di un figlio o di un gatto o un trasloco. Avrò chiesto come sta la sua famiglia. Avrà capito che non mi interessa. Ma io non devo aspettare solo le informazioni che mi interessano e io cosa avrò risposto? Non ricordo se mi ha chiesto come sto. Ma se l'ho chiesto io non vedo perché debba aver ricambiato per forza. Sennò sembra che uno lo faccia solo per educazione e non sta bene. Se uno chiede deve chiedere davvero e non solo per forma. Quindi se l'ho chiesto io non è stato chiesto a me. Forse mi comporterei così o forse no non farei così. E se non l'avessi chiesto per prima? Se fossi stata io la seconda? Resta il fatto che non ricordo se l'ho chiesto. Cos'è che volevo sapere. Di così importante. Non lo ricordo ma se era così importante perché non lo ricordo? Provo a ricostruire l'incontro e tutta la conversazione. Si sarà accorto che volevo evitarlo. Ho fatto un sorriso forzato? Ma lo faccio sempre anche se sono contenta perché non sono mai contenta quindi il sorriso è comunque forzato. Non è perché non voglio incontrare qualcuno comunque l'avrei voluto evitare è chiaro. Quindi se ne sarà accorto. Ho tenuto i piedi voltati verso la direzione che volevo percorrere? Come per andare via? Il mio sguardo ha scavalcato il suo viso lo ha attraversato mi sarò voltata al più impercettibile rumore? Dunque avrò sorriso e salutato un saluto qualunque. Nessun contatto fisico questo credo di ricordarlo. Non potrei dimenticarlo. Oppure. Saltiamo i saluti. L'avrò guardato negli occhi un momento. Non ho chiesto come sta ho chiesto come va. Più neutro. Se l'ho chiesto ho chiesto come va. I capelli un po' troppo lunghi. Ai lati e la barba di qualche giorno e gli occhi un po' arrossati ma c'è vento c'è vento e anch'io sento bruciare gli occhi sulla passerella pedonale che attraversa la ferrovia e da cui a un certo punto si vede solo il cielo. E allora quello che volevo sapere riguardava forse qualcun altro o qualcos'altro sul passato o sul futuro forse su dove stava andando. Era solo una curiosità nel caso. Ci sono altre informazioni di grande importanza che avrei potuto chiedere e sicuramente le ho chieste. Ero distratta anche dal torcicollo e da una sensazione di gonfiore al viso. Penso che avrò tastato le guance più e più volte senza rendermene conto e sicuramente non avrò ascoltato. Perché io non ascolto quasi mai. Perché mi concentro sulle sensazioni e non riesco a fare due cose contemporaneamente. Mi sa che aveva fretta e avrà detto ci sentiamo presto o ci vediamo domani e parliamo un po' e allora l'avrò salutato ancora. Certamente se me l'ha detto anche al telefono vuol dire che è vero a meno che non l'abbia fatto per non farmi sentire troppo stupida. Ma si sarebbe fatto una risata se non l'avessi salutato e poi l'avessi chiamato per salutarlo perché uno non se la prende se non viene salutato senza motivo. Mica ce l'ho con lui. Non abbiamo mica litigato. Non ci siamo detti nessuna parola cattiva. Nessuna allusione nessuna ferita nemmeno un peccato veniale. E se avessi fatto una gaffe come capita spesso non ho alcuna delicatezza nel trattare argomenti intimi e. Ma non mi sembra che abbiamo affrontato discorsi troppo personali forse abbiamo parlato del vento delle nuvole del tempo incerto e di quanto era strano incontrarsi proprio lì. Che poi perché strano. Ma questo lo penso io. Sono solo ipotesi bisogna che le metta tutte in fila una per una tutte le possibilità e che scarti quelle più improbabili e mi tenga quelle più probabili. Ecco e poi avrò una sintesi veritiera della nostra conversazione. E forse le informazioni che avrei voluto avere. Forse sono nascoste da qualche parte e adesso mi sfuggono. In quei fili di capelli fuori posto unti. Di chi non ha dormito a casa. Ma questo non è stato oggetto di conversazione. D'altronde io andavo a fare la spesa e l'avrò detto di sicuro. Che fai vado a fare la spesa. Questo è certo. Vado a fare la spesa. E ho la lista in tasca e questa è la cosa più importante che ho da dire. Sicuramente l'ho detta. Certo traspare una certa malinconia per come la vedo io sono sicura che avrà pensato quanto è triste una che non ha che da dire che va a fare la spesa. Già. A me i supermercati piacciono e non devo parlare con nessuno non chiedere non rispondere. Prendere lasciare riprendere pagare. Niente da registrare. Io amo le cose semplici ma non come pane e olio. Piuttosto come un programma televisivo di cui non ti perdi niente. Non rischio di perdermi niente. Io ho paura di perdermi troppe cose tra quelle che mi stanno intorno e quelle che mi camminano accanto e ora ho il pensiero dei tubi che perdono sotto il lavandino della cucina per questo non riesco a ricordare. Sono poche gocce ma non riesco a ricordare. Se fosse accaduto qualcosa me lo ricorderei. Se mi fosse caduto qualcosa dalla borsa me lo ricorderei io non perdo niente. Perdo parole. Ma perché non sto attenta alle voci. È l'incertezza secondo me che rende difficile ricordare. L'incertezza di aver capito in quel preciso momento. Il chiedersi sempre in quel preciso momento se ho capito bene. E questo mi fa perdere le parole successive e poi quelle successive e poi ancora e ancora. Non riesco più a recuperarle. Comunque ora so che ho salutato andando via perché l'ho chiesto e forse potrei chiedere altro. Tutte quelle gocce, una dopo l'altra, infinite, rimangono sospese e cadono, rimangono sospese e cadono. È la stessa goccia? Potrei chiedere di cosa abbiamo parlato. Ma di niente di niente. Mi risponderà. Proviamo. Forse mi risponderà così. Abbiamo parlato di niente. Non ti preoccupare. Non mi preoccupo. Io domani non vado. Non credo che ci sia un appuntamento. E non lo chiedo. Sicuramente mi sbaglio. L'autunno mi cola dentro il cranio. Gonfia, si dilata come una spugna. Io voglio guardarlo dai vetri. Essere spremuta via.


Chet baker Autumn leaves

martedì 6 settembre 2011

L'orribile, quand'è ingenuo e leggiadro, è una categoria poetica per palati raffinati.

Ancora non ne ho incontrato uno.

Che potesse amarmi per le gengive e le unghie dei piedi marce.


Appagata, sorpresa di pavoneggiarmi e vendermi in una vetrina colorata, Barbie gigantesca dalle molteplici sfumature: ché i capelli grigi con la tintura nero-blu prendono solo il blu; ché gli occhi sono verdi ma anche ambra; ché la pelle è bianchissima ma il viso si arrossa subito con il sole, il sudore e la pioggia; ché sto muta e fissa come una bambola sul letto senza abito di pizzo.

Impolverata di sconti stagionali, sopra velluto rosso, di fronte a un giardino con bambini-genitori-ragazzi nudi al vento, unti di olio abbronzante sotto un cielo che cambia spesso.

Dietro il culo dell'orso, nella speranza di essere risucchiata da qualche potente effetto generato dalle sue flatulenze, come nel tubo di una onanistica underground.
Sollevata dal sentimento di finire i miei giorni in qualità di butt plug, verso sera, sulla strada, mi sfilano davanti le mie paure sdentate e sorridenti. Alcune fanno il segno della croce, altre il saluto militare. Nessun segno di rispetto. Sono io, visione grottesca per loro.

Denudata, pasto di cadavere arrugginito dallo stare troppo fermo, pelle disegnata in arabeschi di incisioni pennellate di mercurocromo, capelli impastati intrecciati di intestini di pesce, posso affermare che, se avessi due tette normali, mi sentirei a mio agio in questo anfratto carnoso, invece ho due mammelle di vacca piene di vermi che si affannano a succhiare latte, già panna acida da vendere per la nouvelle cuisine.

Le possibilità infinite del mio corpo mi annebbiano, mi ubriacano, si affollano urlanti alla porta dopo l'orario di chiusura.

Mi alzo, apro, sono affogata da un nugolo di coccinelle portafortuna che, svolazzanti, mi agguantano la pelle senza lasciarne un millimetro scoperto e mi salvano da un'altra noiosissima serata. Armata di cucchiaio e martello, mi batto ritmicamente ogni parte del corpo.

Le dolci fatine colorate si alzano in volo per poi posarsi di nuovo, ferme nel loro proposito di felicità. Non mi scoraggio e non smetto finché non le vedo ai miei piedi in una pozzanghera rossa e nera, scricchiolante e ancora parzialmente vitale.

Ascolto piccole ali che frullano, poi niente.

Raccolgo zampette, ali e testoline con pazienza amorevole in una ciotola di coccio.

Cotte in acqua e zucchero, saranno la marmellata per la mia colazione dei campioni.

Durante la preghiera della buonanotte, esprimo gratitudine per l'opportunità di vivere addomesticata dal sonno.




Berlin Lou Reed

domenica 21 agosto 2011

Tolto il miglio dalla vaschetta, lavato molto accuratamente con acqua fredda, messo a scolare, tostato con olio d'oliva, cotto in acqua bollente per venti minuti. Questa la mia cena.
Ho avvolto il tuo corpicino nudo nella federa di un cuscino. Pelle di paura o freddo.
Userò le piumette da neonato per imbottire un cuscino da scoiattolo.
Ti ricorderò appena, con il tuo canticchiare stentato.
Credimi, il rigore della morte ti ha reso più bello da accarezzare.
La mattina che ti ho trovato sul fondo della gabbia, ti ho raccolto.
Seduta sul balcone, con un grembiule da cucina indosso, ti ho staccato le piume, una ad una.
Appenderò il tuo ritratto in bagno. Ti guarderò facendo la doccia, quando sono più fragile, farò finta di piangere confondendo acqua e lacrime sul mio viso, sul mio collo.
Beata te, mi dicono spesso.
Beata te, echeggia il tuo canto.
In tempo di carestia ho pensato solo alla mia sopravvivenza come il peggiore dei carnefici.
Tutti i beata te non sono ancora colati sul pavimento bagnato...
(forse continua)

sabato 25 giugno 2011

Penso alle promesse che nessuno mi ha fatto, ché io posso sperare solamente, di essere tradita.
Tutto fila liscio, il camion che raccoglie la carta carica un bidone troppo pieno e lascia volare a terra brochure con gli sconti, scatole per la pizza e riviste.
Un uomo sulla settantina, in canottiera, pantaloncini e guanti di lattice, esce da chissà dove, raccoglie tutto e lo rimette nel bidone.
Ti ammiro mentre fumo la cenere sui rimasugli di capelli che hai in testa. Ammiro la tua abnegazione, la pulizia sbrigativa e l'organizzazione che dimostri. Se incrociassi lo sguardo di qualcun altro, lo inviterei ad applaudirti, non posso battere le mani da sola, mi rende troppo triste.
Solo un appunto, Gentile Signore, hai buttato i guanti di lattice nel bidone sbagliato.
Le nubi si tingono di verde, io non ho voglia di tornare a casa. Non ho voglia di tornare da nessuna parte.
Mi vedo con una camicia da notte di cotone, a fiori rosa, con tre bottoncini al centro della scollatura. Cammino tenendo un piatto con la mano sinistra. Con la destra prelevo ritmicamente parte del contenuto e lo infilo in bocca. Ingoio palazzi e finestre. Tutti gli umani affacciati scivolano dentro le mie fauci grondanti miele e glucosio liquido. Prendo la direzione del tramonto. Fumo bianco esce dalla mia bocca e dal taglio del ventre, mi rende una figurina ridicola. Aggiungo ciabatte di velluto rosa e bigodini nei capelli ad annunciare la notte. Voglio poter raccontare una storia. Voglio avere dei ricordi. Procedo come una sagoma da riempire di luce, vado a bruciarmi la pelle. La notte non arriva mai. La notte ha guanti di lattice. Non arriva, non arriva mai.



Jefferson Airplane - White rabbit

martedì 21 giugno 2011

Canzone per L.

L. ha un dolore al mignolo del piede destro.
L. ha il senso della comunità e non teme l'altro.
L. bussa alla porta del vicino di casa.
L. ha un abito arancione con le gale alle maniche.
L. sente grande affetto per i canarini.
L. si ciba di radicchio selvatico.
L. nuota a delfino per due ore al giorno.
L. dorme otto ore per notte.
L. mangia cereali a colazione.
L. ha delle fitte all'occhio sinistro.
L. è assistente di volo.
L. gioca con il lego.
L. ha trovato il mattoncino mancante.

Il padre di L. è orgoglioso di lei.
La madre di L. è stata un'ottima insegnante di igiene intima.

L. sale al cielo tutti i giorni.
L. si prepara il tè la domenica pomeriggio.
L. va al cinema da sola.
L. ama il silenzio della sala e il buio.
L. immagina di essere divorata viva da granchi mutanti.
L. è andata all'asilo solo per un anno.
L. ascolta musica nella notte.
L. ascolta musica con la finestra aperta.
L. aspetta qualcuno che la insegua.
L. suona il tuo campanello.
L. ti chiede se puoi aprire.
L. urla apri.
L. urla apri.
L. scuote il portone.
L. urla apri.
L. si addormenta sugli scalini.
L. ha le cuffie con volume altissimo.
L. scrive tutto quello che le capita.
L. scrive tutto quello che le dicono.

L. scrive l'elenco dei suoi indumenti catalogati nelle seguenti categorie: biancheria intima, calze, sopra, sotto, scarpe.
Le categorie vengono inserite in una tabella e incrociate con i giorni della settimana.
Lo scopo di questa operazione è riuscire a non indossare lo stesso completo per più di un giorno ogni sette.
Tutti i compiti svolti da L. hanno lo scopo di mantenere il buon andamento della sua vita quotidiana.

L. si sveglia sugli scalini.
L. ha un dolore all'anca destra.
L. siede al tavolino di un bar.
L. ordina caffè e due tranci di torta alle carote.
L. entra nella toilette del bar.
L. tira fuori asciugamano, detergente per il viso, deodorante, spazzolino e dentifricio.
L. si lava con acqua fredda.
L. paga il conto.
L. torna a casa.
L. ha dimenticato di pagare il gas.
L. si siede vicino alla finestra.

Dietro la tenda, con un'altra tazza di caffè, ascolta le trasmissioni del mattino, spalle al televisore.

L. prende il telefono.
L. fa il tuo numero.
L. parla alla tua segreteria.

Ogni minuto che riempie delle sue parole sarà cancellato al primo respiro.
Da te.

L. continua a registrare senza sosta.
L. aggiorna la tabella degli indumenti.
L. prende appunti sulla conversazione con il barista.
L. trascrive le sue frasi alla segreteria.
L. scosta la tenda.

Un uomo su una scala sta imbiancando l'appartamento di fronte.
Un lampadario con cristalli pendenti oscilla e colpisce la scala.
Una goccia cade con rumore di metallo.
Una lacrima acida buca gli strati degli indumenti già catalogati per oggi.
E maglia gonna e collant saranno relegati a oggetti casalinghi.

L. scrive la sua lettera quotidiana indirizzata a te.
L. uscirà tra poco per imbucarla.
L. conserva i francobolli in un cassetto della scrivania.
L. ha la valigia pronta.
L. parte in anticipo.

L. scrive: e se non sai fare altro che ripetere, dovresti accontentarti di quel buio che precede il film, del brusio delle videocassette e dell'eco dei passi dei granchi sul pavimento di marmo.
Rannicchiata sulla poltrona, le ciabatte sono già stracciate.
Lenti onesti animali iniziano a scalare lo schienale.
Le chele accarezzano i capelli, sistemano il taglio.
In tre, aggirano il collo per agganciarsi alla bocca e lacerare la lingua.

L. continua a scrivere.

Deve ancora compilare l'elenco dei cibi consumati durante il giorno.
Dei cartelloni osservati per strada.
Delle canzoni ascoltate.

L. è in ritardo.
L. non vorrebbe mai lasciare un lavoro a metà.
L. guarda la luna che si immerge velocemente in un latte di fumi chimici.







Lonely day – System of a down

giovedì 16 giugno 2011

Let paranoia in

L. entra nel bar dove fa colazione un paio di volte alla settimana.
Il barista, pettinato come Big Jim, ha sì e no vent'anni ma ne dimostra quaranta; la scorge in mezzo a vecchi, impiegati e commesse e le prepara il cappuccino senza dire niente. Un dito sotto il bordo della tazza, a dire la verità: manca latte.
La proprietaria, capelli cotonati e un enorme crocifisso tra le pieghe del collo, gira tra i clienti con un bavoso in braccio.

“Buongiorno, Signora.”

“Buongiorno, L.”

Il bavoso starnutisce dentro il cappuccino. L. si scansa e ne infila mezzo nella scollatura. Si volta, bestemmiando sul reggiseno trasformato in tazza. Pensa di chiedere una cannuccia per poter raccogliere il liquido che staziona tra i seni ma, indovinando lo sguardo del tavolo di pensionati di fronte a lei, decide di assorbirlo con qualche fazzoletto di carta.
La signora le ballonzola accanto.

“Ci scusi, mi scusi, è così piccolo, ha sei mesi, è il mio nipotino. Mia figlia è andata a un colloquio di lavoro, si sa, con un solo stipendio non si campa una famiglia.”

“Nemmeno un individuo, Signora.”

“Eh, ma quando ci sono i figli, cara...posso darti del tu? Dai, prendilo in braccio. Senti quanto pesa...”

“Grazie Signora, come se avessi accettato.”

Nel senso dell'accetta.

“Ti faccio rifare il cappuccino, cara?”

“No, grazie, tanto non mi andava stamani.”

L. cerca una via d'uscita, per fortuna fuori piove. La matrona le corre dietro col bambino.

“E tu, non hai una famiglia?”

L., incrociando le dita nella tasca dei jeans, fa cenno di no. La dolce capobranco china la testa, strizza gli occhi porcini e distende la bocca in un sorriso compassionevole.

Se tu fossi mia madre, avresti già ricevuto un colpo d'accetta sul taglio delle labbra e un altro a spaccare in due la testolina da media statistica di donna italiana nata tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta. Ti ci metto dentro la carta assorbente, cara, così ripuliamo quella inutile pappa grigia contenuta nella tua scatola cranica. La sostituisco con penne al pomodoro, basilico e un po' di parmigiano. Richiudo con due strisce di silicone trasparente.

Ora porta via il tuo frutto bagnato di schiavitù e fammi uscire.
Vedrai che, quando sarà grande, ti strangolerà con la catenina d'oro, quella con il ciondolo ad angelo custode che gli avrai senz'altro regalato per la prima comunione.
Speriamo. Sarebbe un bel passo avanti per l'evoluzione della specie.

“Buongiorno, Signora.”




(I'll cast a shadow - Pantera)

giovedì 9 giugno 2011

Il male minore

Acuminati occhi di vetro su cui scivola olio santo. Penso a questo.
Il segno della croce e il senso del tempo se ne vanno a braccetto verso l'orizzonte dorato del tuo mare di luna. Perdi scaglie di pelle viva, lasci tracce di carne zoppa. Su fibre di nervi, rimbalzano grida bianche, assolate.
Ti vedo lanciare nel buio i tuoi pesi. Io mi scanso per rimanerti accanto.
Le luci si rapprendono nella notte, pronte a diventare nulla dentro il sapore zuccherino di un'alba turistica, frantumata in voci gotiche di ciambelle di salvataggio.
Scriverai sul mio corpo i tuoi racconti con uno sfilettatore di lusso, forgiato e rivettato, in acciaio inox.
Non mi apparecchierò con posate d'argento perché tu possa infilzare i miei occhi.



Non siate gentili con me.

Io fraintenderò.
Vi metterò tra i miei santini.
Mendicherò una grazia.
Prometterò menzogne.
Smetterò di scrivere, ovvero di fare ciò che non si sa.
Smetterò di far credere chissà cosa agli specchi di casa, ché appena mi vedono, rimandano l'immagine di quella che fa gli autoritratti fotografici al fine di vedere, con occhio neutro, quello che è riuscita a fare di quello che gli altri hanno fatto di lei (giusto per non farsi mancare la citazione, fa sempre raffinato citare Sartre, tanto nessuno lo legge, nemmeno io).

Dopo l'ultimo temporale, ho pelle di madonnina fosforescente e cresta di capelli viola.
Sono pronta per il comodino, come disse un giorno il magnifico tossico del mio cuore.
Non c'è che il cuore e solo il cuore da pensare e rime di chewingum appiccicato e indurito.
Vado a velocità siderali, i nomi delle stelle mi inseguono come alfabeti in composizioni linguistiche inerti.
Posso frenarmi solo tappando tutte le ferite e le feritoie.
Se scoppio, pace.
Pace.
Non si trattengono schegge di ossa, ossa tritare, polvere di ossa e midollo osseo - scheletro che si svuota, direi.

Vi prego venite a salvarmi, illuminate i miei denti cavi.
Insegnatemi la scienza per trionfare sulle lusinghe della carneficina di me.


Ho un tampax che filtra il nero di seppia.
Lo conservo tra le carte e i Lepisma saccharina, detti pesciolini d'argento.
Entrambi odiano la luce e mangiano zucchero.
Anch'io mangio cibi bianchi e vesto di nero.
Perché io non so quello che dico. Il si dice passa su di me e dentro e, a volte, fuori mi avvolge come edera secca ancora colma di vitali ventose, ami sulla mia pelle.

Non siate gentili con me.

Come vulcano, do vita a nuove bocche ma non è caldo quello che esce, è pesce marcio vissuto in acque gelide, molle come cazzo moscio, umido come cazzo moscio.
Che finisca questa frenesia anatomica.

Tappatemi la bocca, non scriverò di nessun animale, non scriverò con i polsi ammanettati.
Fatemi una grazia di scambio, vi donerò i cordoni ombelicali di mantenute miliardarie esperte in balli caraibici.
Non lasciatemi sola a mangiare legno e colla fino a scartavetrarmi l'esofago e morire di cibo fermentato in polmoni, cuore, costole mute, non più bianche.
Torturatemi per farmi tacere con filo di ferro fine e scotch nero gomma.
Schiacciatemi i capezzoli con il ferro da stiro a temperatura cotone, riempitemi la bocca di gnocchi di polistirolo da imballaggio, lasciatemi senza parole, senza lingua, senza alcuna espressione.
Recidete tutti i muscoli del mio volto.
Che non tradiscano alcuna emozione.
In azzurre, limpide tentazioni siate i miei maniaci assassini e mangiate il mio minestrone fuori stagione, ve ne preparo un piatto per le sere afose.

Stanchi, spossati, sfiniti, sarò io a imboccarvi e ridere del vostro impegno muscolare.

Non siate gentili con me.

Vi sostituirò con efficienza.
I want a new game to play e lo troverò.



(I want a new game to play, da Megalomania, Muse)

giovedì 2 giugno 2011

Il bambino di sei anni mi chiede cosa penso del mostro che ha in mano. È buffo. Non è buffo, dice. Macché buffo. E lo guarda. Fauci bianche spalancate. Denti da coccodrillo, corpo – celeste - da dinosauro, muscoli da rinoceronte. Scaglie lungo tutto il corpo e la coda, color giallo pallido. I mostri hanno colori pastello. Sanno di plastica e primavera. Di nontiscordardime e fiorellini di camomilla.
Gli adulti, mio padre e la madre del bambino, banchettano con teste d'agnello tagliate a metà. Lingua e cervello spaccati, bulbi oculari integri. L'occhio salta fuori dal piatto come un'oliva di gomma marrone.
Io puzzo di umanità come il sedile di un autobus. E sudore, muco, saliva si seccano sulla mia pelle screpolata e poi unta di crema alla calendula.
Il bambino ha staccato la testa del mostro con un solo, poderoso morso. Nello sforzo ha perso un incisivo. Il collo del mostro, celeste anche nell'anima, si colora di rosso. Una goccia, due. Io lo guardo. Il bambino non piange. Macché buffo. Non è buffo. E io rido, rido. Mi manca il fiato.
Se ci penso, mi manca il fiato.

domenica 29 maggio 2011

Dancing days

Le nuvole scivolano sui tetti. Ogni tanto sembra che si fermino.
C'era troppo olio arancione e non ho potuto finire. Hai sollevato il piatto, l'hai appoggiato alle mie labbra e me l'hai dato da bere. Tutto quell'olio fritto arancione. Tu vuoi creare fodere protettive per le mie fragili, infiammabili mucose. Grazie.
I vicini dell'India stasera ricevono. La bambina veste di rosa shocking lucido e trasparente. Dancing days are here again, as the summer evenings grow.

Le nuvole scivolano indietro, verso il luogo dove sorge la luna. Scarafaggi tutti uguali per forma e misura, passano in fila sulla ringhiera sbucciata e mi fa male il collo per come lo hai tenuto stretto.
Quattro ragazzi albanesi e una porsche fanno i gradassi per la commessa della profumeria. Due operai e cinque birre stazionano vicino al bidone giallo, per la raccolta di carta e cartone; un lavandino sta sul marciapiede, sopra una spaccatura grigia che lo attraversa da parte a parte. Non ci sono tracce del pezzo mancante.

Ho tre peli sul mento. Un fegato irrorato di miele. Ho la luna storta con il baco dentro. Porta fortuna. Chiacchiere ne faccio il meno possibile, soprattutto sulle frustrazioni delle casalinghe che indossano le autoreggenti. Io non mi dono affatto.

Vorrei scrivere una lettera d'amore come quella al mondo che non ha mai scritto a lei che guardava attraverso i vetri, una lettera al cosmo e poi un esercito di omini di mollica di pane marcerà scivolando lungo la mucosa dello stomaco, risalirà l'esofago e userà la mia lingua come trampolino per tuffarsi nell'identità. A uguale A. Non si torna indietro, non si procede.

Hai tutta la vita davanti. Ti lascerò morire. Ti guarderò mentre diventi giallo per il sangue che se ne va dalle guance e mentre la merda esce senza interruzione dal buco del culo che ormai non stringerai più per la paura.
Io starò davanti al tuo letto con un vassoio di bicchierini colmi di alcol puro, me li farò a uno a uno finché non vedrò l'ultima leggendaria lacrima sgorgare dai tuoi occhi sbarrati.

So aspettare.

Tu vincerai una maggiore purezza per la prossima vita.
E io diventerò la fodera dei sedili della tua macchina di mediocre rappresentante del terziario avanzato, per questa mia unica vanità, l'attesa.

Ne sarà valsa la pena.



(Dancing days - Led zeppelin)

lunedì 23 maggio 2011

Convivendo con le formiche ("I put a spell on you" di Screamin' Jay Hawkins, possibilmente nella versione di Nina Simone)

h.00:00 (cartoni animati, lanterne e gusci d'uovo)

Si potrebbe andare a dormire.

Sei una meraviglia, ti rifarei in scala per averti sempre con me nella tasca del cappotto.
È così che si comincia a morire, quando tutto si riduce a un oggetto da tasca.
Mi sembra che rimarrò sempre da sola.

Guarda che luna, guarda che mare, inizio a scricchiolare.
Il collo, il fianco destro, la colonna lombare.
Mi pare di aver sentito muovere anche le ossa del cranio.
La minaccia è lontana e oggi so che hai il terrore di essere visto.
Le mie ciotole di metallo piene di zuppa di latte e biscotti sono allineate accanto al letto.
Il mio compito è sbrodolarmi e sputare e mangiare come animale da compagnia, io, guscio vuoto dentro il quale scorre petrolio in quantità pressoché infinita.


Ti cerco dappertutto, nelle pieghe dei tuoi e miei tanti nomi: quando ti prendi cura di te, di me, quando vai dalla parrucchiera, ti tagli i capelli, ti fai il colore, ti metto l''ombretto, il rimmel, il rossetto, quando mi provi un vestito e gli specchi si spezzano tutti e le immagini sono troppe per essere frammenti di una sola.
È molto meglio stare in ciabatte, molto, molto meglio.

Come vedi, è stato perfettamente inutile salvarmi.

Le regole sono queste, per me e per te: non devi dirlo, devi farlo; non devi aver paura a toccare le piante quando hai le mestruazioni; non devi aver paura a lavarti i capelli.

Io non ascolto le tue parole: “Quando sei infetta e puzzi di ferro e cadi a pezzi furiosa, come una luna perduta incapace di fare luce, sei un pezzo di lana di vetro che uccide le persone perfettamente in silenzio.”

E tu sei in una prigione di malattia.


Non rispondermi mai con quella lingua tagliente come bisturi da svuotare le vertebre, una alla volta.

Stanotte, il martello l'ho preso solo per il chiodo.
Ho rotto tutte le finestre, non potevo fare a meno delle finestre, almeno entra un po' d'aria, un po' d'aria, almeno allargo i polmoni, entra il vento e non sbatte niente, volano le tende, entrano le foglie e anche le spine e io tremo tutta e mi concentro e mi dico che non è freddo, che è freddo ma devo rilassare le spalle: se mi espongo al vento e decido di non avere freddo, non avrò freddo e così io non ho freddo, non ho mai freddo.

Sono la malattia che hai avuto. "I don't care if you don't want me cause I'm yours, yours, yours anyhow..."

E tu sei il mio Terence, il mio Capitan Harlock, il mio Gig robot d'acciaio con le lame rotanti e il fucile a energia solare che mi squarcia tutta e mi penetra anche là dove i buchi sono rivestiti di pelle e tu ne trovi di nuovi pronti all'uso, mio Daitarn III, Lupin 3°, mio Lady Oscar con l'uccello, eroe dei miei stivali, assurdo, in pompa magna, che aspetta la mia bocca che si scava da sola.

Non si va mai in fondo a dire nulla, tutto è tagliato a metà, imposto come un troncone privo di senso pronto all'interpretazione dell'altro; niente mi completa, niente ti completa.
Raccontami tutto di me e non omettere nulla poiché gli altri hanno una vita di piccole pratiche inutili e io ho fatto il cambio di stagione.
Riempio l'armadio di voi umani alla velocità della delusione.

Volute di zucchero filato annebbiano la mia vista.

Mi sembra un'ottima idea quella di andare a dormire adesso.



h. 10:00 (caffè e bicarbonato)

Obblighi da tradurre in possibilità, obblighi in posizioni pestilenziali tipo porgimi l’altra guancia che sono qui o mena il can per l’aia che io sono sotto il tuo tetto.
Del fegato fritto e le animelle con salsa di cipolle in vino veritas, fammi una foto sopra il vetro di una finestra con una palla da biliardo come luce diffusa in millimetri finiti e percepiti.
Delle offese fammi fiumi ghiacciati come scultura dal ponte gettata in acqua azzurra acqua chiara. Ho tutti i bambini stesi ad asciugare sulle altalene e dai gelatai cercami i codici d’onore dei tabaccai e dei macellai.
Dai fiorai, fruttivendoli pervertiti all’ikebana, mi batte in testa tutto quello che ho mangiato ieri e oggi e ieri e oggi e ieri e quello che mangerò domani sta nella manica della giacca da cui nascono assi di carte truccate per le migliori occasioni mondane, perciò: voglio sapere tutto di te.
Nelle scollature più profonde scenda la cascata di cerume delle orecchie e tu accendimi i capelli di lacca verde, lamina di metallo nel cervello, frazione a dividere zone fra loro morte.


Che bella giornata, mi alzo, a media mattina apro la finestra e accendo la radio: una canzoncina francese con voce velata e le scintille che escono dalla pelle condiscono il cornetto e il cappuccino, dipingo le pareti di caffè danzando sulle pozze, ché dal soffitto piove olio fritto.

Ogni casa è una spugna e tu! Prepara le candele da ardere.



h.20:00 (guanti da cucina e secchio di plastica)

Ho in odio l’esser femmina, toglietemi tutto ma non l’orologio.
Toglietemi tutto l’apparato di riproduzione, soprattutto quelle due palle di vita marcia che, con amore, soffocano le piantine di speranza coltivata al buio, sotto la polvere del materasso. Toglietemi quelle due tonsille acide di vita uccisa, piccole zitelle inutili che strillano la loro inutile esistenza.
Toglietemi anfratti e caverne.
Ricoprite, cucite, via tutto.
Toglietemi anche le orecchie e i buchi del naso ché la bocca mi basta a darmi morte e piacere.
Ho in odio l’esser femmina e non vorrei esser maschio: voglio tornare pietra, granito, tufo poroso al vento, ramo ritorto dal mare, acqua e sabbia, carbone, petrolio immortale con sola funzione di bruciare.
Ho in odio l’esser femmina, di liquidi affamata, secca di vittorie e muta di mani, ardita di vocazioni e perduta, mancante di azione, rinchiusa nei pensieri esterni di menti possedute dalla soglia della casa, nata col desiderio dello specchio, disposta a tutto purché sia l’altro a darmi vita.
Libera dai fili, la distanza non muta. L’adescamento del dipendere pende dai cieli rimossi.
Ho in odio l’esser femmina, ho in odio l’esser in tutto disponibile e potente, l’essere in tutto il tutto per niente.



h. 00:00 (-)

Come fotografa di nulla, ho registrato ogni minimo spostamento della tua anima.
Le tue cellule, come carta da parati della mia camera, condiscono la tua assenza.
Sappi che non ti chiederò scusa per le assonanze.
Convivo con un andirivieni di formiche notturne.
Nient'altro da aggiungere.

venerdì 20 maggio 2011

Un altro tempo, un altro luogo/Another time, another place/Ein anderes Mal, einen anderen Ort

Non sapendo cosa scrivere, L. annotava gli oggetti che vedeva intorno a sé, i nomi delle strade e i numeri degli autobus. E poi? Poi iniziò a chiedere il nome ai passanti. Con il suo aspetto infantile, non riceveva che sorrisi. E così camminava anche con la pioggia e la neve che le confondevano i segni di penna sul foglio. Poco trucco, abiti sobri, tacchi altissimi e affilati. Di quelli non poteva fare a meno. Miglioravano la sua andatura e, sulla neve ghiacciata, fungevano da ramponi.
La vecchia sdraiata per terra, coperta di erbe aromatiche, le disse di chiamarsi A. Le offrì un mazzolino di salvia fiorita in cambio di una copiosa innaffiatura. Si sa, le erbette necessitano costantemente di acqua. Rimase a occhi aperti anche quando il getto d'acqua bollente le bruciò il cavo orale. Il profumo di lingua stufata attirò i gatti della zona. A. non abita più qui.
L'uomo con la giacca a quadri bianchi, blu e verdi si chiamava O. e aveva visto tutto. Aveva i baffi alla Dalì. Puzzavano di lucido da scarpe. Stava morendo di nostalgia per il suo nipotino. Purtroppo la figlia glielo aveva portato via e lui non poteva più stuprarlo. Con un mazzo di rosmarino tra le mani, si inginocchiò sull'asfalto urlando il nome del piccolo F.
Gli spazzini non fecero fatica a lavare i suoi resti con un paio di secchiate d'acqua e ammoniaca. Indossavano le mascherine ma si sentirono distintamente i loro nomi: G. e M.
L. rimase seduta sull'orlo del marciapiede anche quando si spensero le luci.
Prendeva appunti. Tornava a casa solo per dormire.

“D., quando sarò morta, curerai un'edizione di tutti i miei appunti? Ti lascio tutto.”
“Io sono più vecchio di te.”
“Ma io morirò prima. Non sarà un lavoro facile. Sono disordinata.”
“Lo so L., ti vuoi ammazzare?”
“Non ora. Tra un po'.”
“Uhm.”
“A volo d'angelo sul ghiaccio del fiume. Spiaccicata tra le anatre. O sopra.”
“Prenoti un volo per l'occasione o quando capita, capita? Certo che hai la testa piena di merda.”
“Avrei bisogno di una sonda per spurgarmi.”
“Potevi dirlo subito che volevi scopare.”
“Prima cancellerò le ultime battute.”

D. dormiva. Il vento scuoteva le serrande.
L., scarpe buone e taccuino pulito, prendeva un caffè all'incrocio tra la fermata di un autobus e quella di un tram. Non sapeva il nome del bar. Tanto meno i numeri dell'autobus e del tram. Tanto meno il nome delle strade. La mattina odorava di ammoniaca.

martedì 17 maggio 2011

Una zebra a pois

Mi sveglio con il suo lamento nelle orecchie. Mi alzo come mi trovo: maglietta, slip, senza reggiseno, scollata, aperta, con un seno fuori e uno dentro. Mi sistemo mentre attraverso il corridoio, presa dall'ansia della catastrofe: voluta, allontanata, elastico estenuante di tutte le notti, di tutti i giorni, di questi tempi.
“Che ti succede?”
“Non lo so.”
Lo guardo dall'alto, senza avvicinarmi. Lo incalzo, un po' irritata, un po' intimorita.
“Che c'è? Che ti succede?”
“Non lo so. Quando chiudo gli occhi, non so, mi viene un'agitazione...”
“Non respiri bene?”
“No, no, respiro; respiro anche a bocca chiusa. Guarda.”
Ansima.
“Va bene. Basta.”
“Non dormo. Non riesco a dormire.”
“Ho capito. Devo rimanere qui?”
“Non lo so. No.”
Torno a letto. E' ancora caldo. Cerco un'altra voce sul cuscino. Silenzio. Non la trovo. Non c'è. Ho ancora il suo lamento nelle orecchie.
Mi alzo, mi apposto nel corridoio per controllare. Si lamenta.
Ingoio la sconfitta e vado a prendere i miei cuscini. I capelli solo sul mio sudore, solo col mio odore, almeno quello. Mi stendo accanto a lui, il più lontano possibile.
Lo sento rantolare, il respiro che fischia. Ogni tanto si calma ma subito dopo l'affanno riprende.
E' sveglio. Anch'io ho il respiro pesante. Mi prende la mano, gli occhi pieni di acqua giallastra.
“Come faccio?”
“Devi stare calmo. Se ti agiti, è peggio.”
Si alza per pisciare nel contenitore di plastica che tiene accanto al letto. Piscia ogni ora.
Gli volto le spalle. Forse riesco a dormire un paio d'ore.
Sogno una foto in cornice: io sul letto, appoggiata su di lui, con la mia schiena sul suo addome.
La foto si anima, io mi alzo dal letto, lui rimane. La sua erezione è del tutto innaturale per un uomo di ottantatre anni. Mi allontano, lui canta: Una zebra a pois, è una grande novità, me l'ha data un marajà, vecchio amico di papà...una zebra a pois, beh, che c'è? A pois, a pois, a pois...
Mi sveglio rannicchiata sul bordo del letto.
Alle cinque arriva un po' di luce. Il vecchio dorme, io mi alzo.
Vado in bagno, svuoto il pappagallo pieno del suo piscio notturno. Lo rimetto a posto.
Guardo il vecchio. All'improvviso le mie mani sono lì, chiuse, a un centimetro dalla sua bocca storta.
Vado a lavarmi le mani e la faccia.
Nella mia camera c'è ancora buio. Immagino che rinascerò più umana. La prossima volta.
Tra qualche ora mio padre si alzerà e vorrà che lo aiuti a fare la doccia.
L'inquilino del piano di sopra si è svegliato, il cane di una mia amica d'infanzia abbaia qui sotto. Guardo fuori dalla finestra. A pochi metri da me, un ragazzino cinese piscia fuori dal balcone.
Che farà in piedi, a quest'ora?

domenica 15 maggio 2011

Cani

Prendo: valigia, contanti, carta di credito, documenti.
Lascio: chiavi di casa, telefono, libretto dell’automobile.
Se incontro qualcuno, dico: parto per un paio di giorni.
Appena fuori dalla porta, l’agguato della vicina.
“Sempre in partenza.”
“Torno tra un paio di giorni.”
“Beata te che fai sempre la turista!”
Nell'ordine: prendo il primo autobus che passa, mi allontano dal mio quartiere, entro in un bar, chiedo un caffè, chiamo un taxi, mi faccio accompagnare alla stazione, scelgo una meta non troppo lontana, faccio il biglietto.
Il treno parte dopo mezz’ora ma è già sul binario. Salgo e mi accomodo su una poltroncina singola, vicino alla porta scorrevole. Il viaggio durerà tre ore e un quarto. Quando arriverò, sarà buio. Rimango incollata al vetro del finestrino controllando il riflesso del passeggero di fronte a me. Non bado a niente. Fingo solo di essere concentrata su pensieri di importanza capitale.

La stazione di arrivo non ha pensiline. È notte. Scendo le scale. Mi blocco. In fondo, intravedo un corridoio poco illuminato. Il buio respira tranquillamente in attesa del mio passaggio. Può aspettare, torno indietro. Controllo gli orari delle partenze. Il prossimo treno si fermerà all’alba. Sicuramente all’ingresso della stazione c'è una biglietteria automatica. Per il momento, aspetto qui.
Ho freddo. Vedo un'ombra che striscia lungo uno dei binari. Si ingigantisce. Si avvicina. Mi è addosso. Ha il fiato puzzolente.
Un labrador color miele, occhi castani, mi ha messo il muso in faccia.
Mi allontano. Mi segue. Richiama la mia attenzione con un breve mugolio. Mi volto. Gesticolo, dicendogli di andarsene. Salta. Mi siedo. Mi mette le zampe in grembo. Non voglio compagnia.
Non sopporto gli esseri imploranti. Hanno sete, hanno fame, si sentono male, vomitano, mangiano sassi e merda secca, vanno operati, hanno bisogno di gocce negli occhi, vanno puliti, spazzolati e liberati dalle zecche, rassicurati, coccolati, massaggiati.
Smetti di ansimare. Non ti conosco, non ti voglio, non ti sfamerò. Niente possesso e devozione senza argini. Non ti porterò con me. Togliti di torno.
Sposto bruscamente le zampe.
Torna a mangiare spazzatura, rivolgiti alle signore con le borse di stoffa a fiori e i sacchetti di carta pieni di polpettine di soia e erbette di campo. Ti sorrideranno, così le potrai fregare con la tua bavetta piagnucolosa. Non ho bisogno della tua simpatia di cucciolo storto, con un occhio cieco e uno azzurro.
Giusto per concludere la conversazione, gli urlo di andarsene e tiro un calcio goffo nell’aria. Il cane si allontana e, dopo aver annusato il marciapiede vuoto, torna di corsa, con l’aria di attendersi qualcosa di più divertente.
Attraverso il binario. Mi segue. Cammino sul marciapiede in lungo e in largo. Mi segue sempre.
Va bene, l’hai voluto tu. La battuta di un noir anni quaranta non mi dona e non si adatta alla situazione. Devo ricordarmelo, in ogni caso l’hai voluto tu.
Inizio a scendere le scale strisciando lungo la parete e chiudo gli occhi. Percepisco una sottile variazione di luce. Sento un gocciolio.
Se la mia vita fosse un film, che film sarebbe? In un melodramma, protagonista Lana Turner, avrei il ruolo secondario di triste zitella, sacrificata alla bionda dea del sesso; in un film rosa trash sarei la piccola aspirante cenerentola sfortunata, senza speranza di essere sverginata dal principe; in un film dell'orrore, sarei la prima vittima, quella idiota che corre fra le braccia dell'incubo, quella che muore dopo dieci minuti dall’inizio perché attraversa un corridoio buio dove si sente gocciolare ma non ci sono rubinetti nelle vicinanze. E non piove dal soffitto.
Torno indietro. Il cane mi aspetta con la testa tra le sbarre della ringhiera, gocciolando bava e dimenando la coda. Gli sono mancata.
Va bene, l’hai voluto tu. In un noir, non sarei il cattivo ma nemmeno il detective. Sarei sempre la vittima, stupida e imprudente, quella dalle labbra tremanti, salvata appena in tempo dall'eroe di turno, dopo aver sacrificato le vite di almeno un paio di volenterosi innocenti.
Scendo le scale. Lungo il corridoio, l’unica fonte di luce è rappresentata da una fila di bacheche pubblicitarie. I negozi più antichi della città tengono a dirmi che rappresentano degnamente le tradizioni del luogo.
Il cane è in cima alle scale. Scodinzola. Mugola. Sbava. Il corridoio sembra vuoto ma non posso esserne sicura.
Il cane, adesso, sta ansimando alle mie ginocchia. Se mi aggrediranno, mi difenderà. Spero. Uccideranno lui per primo. Spero. Vado. Non c’è nessuno per davvero.
Finalmente sono fuori.
Mi guardo intorno, alla ricerca del solito affittacamere nascosto da un portoncino con le sbarre di ottone oppure di una pensione con le tende impastate di polvere e fumo. E questo luogo, che rispetta un certo numero di tradizioni, non si smentisce. L'unico lampione funzionante illumina il cartello di un perfetto esempio di albergo a una stella. Lì, il cane non mi seguirà.
Suono il campanello. La serratura elettrica fa uno scatto moscio. Appena apro il portone, il portiere mi urla che non accettano animali.
“Non è mio.”
“Già.”
E tace, finché non riesco goffamente a far uscire il mio cane ombra.
“Una singola.”
“Già.”
Segue un lungo silenzio, poi: “N.11, bagno in corridoio, documento valido, pagamento in anticipo, il cane non entra.”
“Non è mio.”
“Già.”
Mi arrendo. Gli presento diligentemente quello che mi ha chiesto, prendo la chiave e vado in camera.
Dalla finestra vedo la strada, la stazione e il cane. Guarda in su, verso la luce della mia finestra, scodinzola. Chiudo le tende. Proverò a dormire.
Il copriletto è un falso damascato sintetico, rosso rubino. La tappezzeria richiama lo stesso motivo ma è un tono più chiara, come le imbottiture delle sedie, dallo scheletro di legno scuro e lucido. Mi agito nel letto; l'alternanza di rossi e marroni mi soffoca.
Appena sveglia, chiedo la colazione in camera.
Il portiere, lo stesso della notte, entra con un vassoio, lo appoggia sulla piccola scrivania vicino alla finestra: “Apro le tende?”
“No, grazie.”
Accende la luce ed esce.
Sono sicura che sia ancora lì. Da bravo cane, non molla facilmente. Vedremo.
Finisco tutto quello che trovo sul vassoio: un cappuccino senza schiuma, due brioche confezionate, un cioccolatino fondente e un bicchiere d'acqua naturale. Mi faccio una doccia calda, mi spalmo una crema per il corpo, una di quelle che non uso mai, quella più grassa, così devo massaggiarmi a lungo prima di farla assorbire. Asciugo i capelli con cura, domandoli con la spazzola, come non faccio mai. Indosso collant finissimi, mi vesto con lentezza e attenzione. Stendo un velo di fondotinta sul viso, trucco occhi e bocca come se dovessi incontrare chi misurerà la sua attrazione dalla cura del mio aspetto.
Ho bisogno d'aria. Mi avvicino alla finestra, infilo una mano dentro le tende e apro uno spiraglio, senza guardare. Sistemo i cuscini, mi siedo sul letto con il libro che mi accompagna sin dalla partenza.
È il momento di ricominciare a leggerlo dall'inizio. Lo apro, la prima pagina si stacca e scivola sul letto.
I tabelloni con i puntini arancio che scorrono o i piccoli quadrati che si muovono, come girandole, ogni volta che una partenza cede il posto a un'altra, i passeggeri che intralciano gli androni, i corridoi, i marciapiedi, le sale d'aspetto con un ubriaco ogni tre poltrone e io, che mi muovo, evitandoli come in una gara di ballo all'ultimo sangue, e poi la pagina numero uno che ha un angolo consumato. Quello in alto a destra. Sbriciolato in una stanza che sembra bastare a se stessa.
Mi addormento da estranea su un letto urticante di cimici.
Mi sveglio con un rivolo di saliva a un angolo della bocca. Mi asciugo. Guardo la macchia rossa sulle dita. Finisco di tirare via il rossetto strofinando le labbra sugli avambracci. Chiudo gli occhi e li sigillo spalmando il mascara con i polpastrelli.
Sono così concentrata in questa operazione che quando sento bussare alla porta scatto in piedi.
“Chi è?”
“Sono il portiere. Può aprire?”
“Un momento. No, ora no, scendo io tra un po'.”
“Già.”
Corro in bagno a lavarmi la faccia. Mi lego i capelli.
Nell'atrio, trovo il portiere che guarda fuori dalla porta a vetri. Si volta bruscamente.
“Ha deciso di rimanere anche questa notte? E' già tardi, dovrei farle pagare la stanza.”
“Ho deciso di rimanere.”
“Già. Pagamento in anticipo. Le rendo il documento.”
Salgo in camera a prendere i soldi. Forse potrei anche togliermi le scarpe col tacco.
Chiedo al portiere se è possibile avere la cena in camera. Mi guarda con commiserazione. “Non facciamo servizio ristorante.”
“Ma stamani...”
“Siamo convenzionati con il bar della stazione.”
“Potrei ordinare qualcosa da fuori?”
Sbatte un elenco telefonico sul banco.
“Già.”
Sotto lo sguardo del portiere, telefono al primo servizio a domicilio che trovo. Ordino una quantità di cibo sufficiente per almeno tre persone e mi siedo ad aspettare. L'atrio è freddo e silenzioso, rosso e marrone. Un odore di caffè si diffonde dalla stanza dietro il banco del portiere. Lo guardo.
“Vorrebbe un caffè?”
“Magari.”
Mi porta una tazzina senza piattino, come fossi una sua parente. D'altra parte è il suo caffè, non è tenuto a servirmi.
“Se ha intenzione di dare da mangiare al cane, le devo chiedere di non farlo davanti alla porta.”
“Quale cane?”
Silenzio.
“Già.”
Bevo il caffè evitando di guardare fuori.

martedì 10 maggio 2011

nel giorno di ieri

chiedere a carnefici di correre a salvarmi
a mangiare quando non ci va - si mangia quello che non ci va
tu con il cucchiaio in mano che porgi la tua minestra
tu che mi chiedi di leccare il tuo coltello
madre di sborra
padre di niente
ecco la scena - tazza di farina infornata e acqua, cucchiaio enorme e facciamo più in fretta
tu che illumini i tuoi cucchiai fette di luna
le quattro del pomeriggio che sembrano il tramonto - per la malinconia che mi tocca tracannare

ho aperto un negozio grande come un circo

venerdì 6 maggio 2011

Distrazione

Una volta ho scritto: Ho chiesto di morire pur di essere vendicata.
Nessuno mi vendicherà. Quando morirò sarà tutto silenzio. Tutti gireranno gli occhi un'altra volta. Le mie colpe riempiranno la bara fino a scoppiare. Come candele mangiafumo, annulleranno i gas prodotti dal mio corpo in putrefazione con tripudio venefico-esplosivo.

Continuo a tacere, non andrò da nessuna parte finché non sarà finita e non sarà finita finché non me ne andrò. Potresti dirmi come?
Compra un paio di autoreggenti nere, finissime. Indossale. Ti voglio femminile, raffinata, le unghie laccate di rosse. Certo, lo faccio. Indossa le scarpe che ti ho regalato. Fotografati. Lo faccio, sì, in onore della tua grossolana ovvietà. Sfila gli slip. Cerca qualcosa da infilarti nella fica. Qualsiasi cosa, un cetriolo, una zucchina, anche il tubetto del dentifricio, se è ancora da iniziare. Certo, lo faccio. Gli ortaggi sono appena usciti dal frigorifero. Tengo per un po' il cetriolo in bocca e poi lo scaldo fra le tette, magari ti mando una foto. Me lo infilo fino in fondo e te lo dico. Mi prende la smania. Faccio un'altra foto, lo rimetto in frigo dopo averlo sciacquato bene. Il giorno dopo lo trovo tutto raggrinzito ma ancora utilizzabile e allora lo rifaccio.
A questo punto, credo che sia ora di fare un'insalata.
Ciao mio caro, un bacio dolce, così si dice, o meglio, salute! I cetrioli fanno bene alla pelle.
Peccato che tu non possa partecipare al banchetto. Avresti apprezzato.

Sì, sono la medusa che tu immagini, che pietrifica ogni slancio candido. In attesa di capitolare.

Ma mi distraggo.
Dunque.
Una volta.
Ho scritto.
Ho chiesto di morire pur di essere vendicata.
Ma non ci sono vendicatori in giro. Nessun giustiziere della notte per me.
E io non mi vendico da viva, sia mai.
Sai, mi manca quella lieve ironia che imperversa dappertutto, che è buona per tutto, avvolge tutto. Cambia tutto.
Distoglie da tutto.

mercoledì 27 aprile 2011

Spielothek

1.
Ascolto colonne sonore di film non visti. Sul tavolo, di fronte a me, un tovagliolo stropicciato di carta rossa, una busta di nylon annodata (dentro, briciole di pane integrale), un bicchiere da birra con due dita di infuso di arancio e ginger, un bicchiere pieno di vino bianco, una ciotola di ceramica verde, vuota, con tracce minime di pomodoro e parmigiano (dentro, una forchetta, leccata con cura). Più lontano, sul tavolo, un libretto di Beckett, due telefoni, un accendino di plastica trasparente, fucsia, un pacchetto di sigarette, arancione, candele alla vaniglia, quaderni, volantini di varia provenienza, caramelle gommose a forma di pesce e molte altre cose che non mi appartengono. Vorrei mettere in valigia questo tavolo lunghissimo e trasparente, con tutto il suo contenuto, e le finestre di fronte a me, con il buio ricamato di rami neri e, in fondo, sulla sinistra, quelle luci intermittenti che mi avvertono, mi parlano, mi avvertono che questo tempo sta per finire.
Mi sono fatta la carta d'identità nuova, quella simile a una carta di credito. Ha anche la custodia. Ho un altro rettangolo di plastica colorata che si aggiunge alle tessere di appartenenza e riconoscimento che possiedo. Le vorrò tutte con me, nella bara. Saranno le uniche cose rimaste quando dovranno rivoltare la terra per spostare le mie ossa e, allora come adesso, non sarò io a essere riconosciuta, chiamata e risarcita per i punti che ho accumulato e i crediti che penso di poter vantare. Passo le mie sere ad aspettare cose, persone mai arrivate.
Un'orchidea rosa, caduta sul pavimento, ha chiuso la sua vagina per sempre. Tento di aprirla con le dita e si richiude ostinatamente. Strappo la sua saracinesca di carne. La lascio, nuda, a sbiadirsi di ruggine, anche lei distesa sul tavolo trasparente.
L'ultimo pezzo è una rumba. Ho ancora un filo di voce per pensare.

2.
Il bello di quei momenti era non pensare a niente. Svuotarsi, finalmente, di ogni futuro, aspettare, prestarsi. Nel tempo, ho mancato anche a questa disciplina. Adesso mi riduco all'offerta di prestazioni prive di quella concentrazione assente, ostinata e lasciva, necessaria come invito ad agire. Adesso è una resa senza invito.
Il bello di quei momenti era sentirsi protetti da una pazienza infinita, una lieve attesa di silenzio e stanchezza, spossatezze che arrivavano dopo lunghi sforzi di riconoscersi nella ripetizione e rimettersi a posto, ogni volta. Adesso basta solo che non finisca.
Voi avevate paura, io pazienza. Di una bambola di cera da sfigurare e ricomporre a piacimento, una sposa di Cristo in estasi, tra lampi dorati.
Quello che mi ha sempre fregato, è il bisogno. E i film di fantascienza degli anni '50. Immaginavo che fosse così anche per me, diventare una levigata replica bionda dalle pupille bianche.
Il mio silenzio l'ha resa invincibile.

3.
Ascolto blaterare una bionda truccata di rosa. Di fronte a me, sul tavolo, una bottiglia di olio extravergine d'oliva, un barattolo di melanzane sottolio, una bilancia per alimenti, rossa e bianca, due pere Williams rosse, una bottiglia di plastica piena a metà di acqua naturale, due bicchieri vuoti, mattonelle bianche con ricami verdi, schizzate di cibo frullato. Alla mia sinistra, una finestra con la tapparella abbassata.

venerdì 22 aprile 2011

Ovunque mi trovi, un mutismo inarticolato mi insegue. Sui margini dei binari mentre il vento risucchia l'ultimo treno. Sulle note alte di "Little girl blue", seduta, composta sulla panchina di legno, al bordo del terrazzo di una casa tra le tante. Su un lenzuolo rosso macchiato di liquidi non miei. Sulle cime degli alberi fioriti stanotte. Di fronte a una luna abbagliante come una stella lontanissima e inesistente, ormai.
Quando si sceglie di tacere, non si può cambiare idea e mettersi a parlare, all'improvviso.

mercoledì 6 aprile 2011

I sacrifici di carne e sangue, buoni per condire gli spaghetti, i gomiti sorretti da pile di libri da annegare, prendono i miei giorni di pace prima di sparire.
Foglie di menta nel bicchiere, pronte a tutto, si dirigono al caldo o al freddo, senza perdere colore.
Nel cielo, i capitali riscaldano l’est.
Si impara a parlare, aspettando.


(Un po' di tempo fa, certo, ma sto per partire di nuovo. Torno.)

lunedì 4 aprile 2011

C'era sempre tanta musica nell'aria

Allora potevamo andare sul lungomare, fermare la corriera e dire: “Fedeli alla linea!”, alzando il pugno. L'autista rideva e ci faceva salire senza biglietto.
Io, per sempre devota, la prima della classe di devozione, mi affidavo agli oroscopi.
Pianificavo fughe. Che non si possono decidere. Nemmeno per idea.
Sono ancora qui. Aspetto qui, ancora.
Il sole mi deposita cipria ipoallergenica sul naso.
Mai avuto biglietti e nemmeno inviti.
Aspetto ancora di giocare a nascondino tra i sedili.
Aspetto ancora l'esplosione di una bomba libera tutti, con decoro di brandelli bianchi e rossi.
E poi una corsa verso il delirio acuto di mille vetri schiacciati per strada.
Com'era quella cosa della carneficina totale? Quella di Sylvia Plath.
La tiro fuori periodicamente.
Quanto abbiamo bisogno di una carneficina totale.
“Quanto è incontrollabile il desiderio di carneficina totale che ognuno di noi nutre...”, ecco.



Non so dei vostri buoni propositi
perchè non mi riguardano
esiste una sconfitta
pari al venire corroso
che non ho scelto io
ma è dell'epoca in cui vivo
la morte è insopportabile
per chi non riesce a vivere
la morte è insopportabile
per chi non deve vivere
lode a Mishima e a Majakovskij
tu devi scomparire
anche se non ne hai voglia
e puoi contare solo su di te
PRODUCI CONSUMA CREPA
SBATTITI FATTI CREPA
PRODUCI CONSUMA CREPA
CREPA
RIEMPITI DI BORCHIE
SBATTITI FATTI CREPA
ROMPITI LE PALLE
COTONATI I CAPELLI
RASATI I CAPELLI
CREPA CREPA CREPA CREPA


(Morire, CCCP - Fedeli alla linea)

martedì 29 marzo 2011

Non c'è ironia che tenga

Crocifissa, con un cazzo piantato in gola e uno nella fica; impalata con l'asta di una bandiera bianca; sul letto, fulminata dai cavi elettrici di madonne incoronate, la notte stanotte non funziona.
E tu, col suo odore che picchia in testa, ubriacati e fai quello che vuoi.
Ché adesso il feretro arriva, con tanti cavalli.
Ti darà tutto quello che vedi.
Ti sarà tutto quello che inganni.

domenica 27 marzo 2011

Stai zitto, stai al tuo posto.
Non fare niente se non ti è richiesto esplicitamente.
Non muoverti dalla tua stanza. Ricalca le tue orme, non tracciare altri sentieri. Non andare dove non sei stato invitato. Non dire una parola in più.
Non chiedere, non chiamare, non dubitare, va tutto bene.
Non dimostrare affetto, non rivelare emozioni. Se non ci riesci, dimentica.
Quello che senti non ha importanza e, il più delle volte, è falso.
Non credere, non piangere, non ti lamentare, non disturbare.
Non fare analisi, non sapere niente. Stai zitto, stai al tuo posto.
Non imparare, non rimpiangere.
Dormi, ascolta, compra, mangia. Stai zitto, stai al tuo posto.
Vedrai che passerà.

lunedì 21 marzo 2011

Sottoveste/reggiseno/autoreggenti/guanti di pizzo neri, Essenza del nichilismo di Emanuele Severino, una sbarra di ferro, un paio di sandali tacco 15 e una risma di A4, intonsa.
Me li vedevo già, quelli dell'officina: estasiati.
Ma, per pura incompetenza, ho svuotato il bagagliaio.
Prima.
Aspetterò fuori, sulla panchina di legno cotto al sole.
L'aria è ferma.
Io mi muovo tutta.
Un verde-tagliola luccicante mi serra le caviglie.
Arrivano lamenti metallici dal buio.
Ed eccoli, i perfidi figli sulle altalene.
Teste mozzate querule blaterano di progetti futuri da fallire.
La loro presenza non mi scompone e anche Johnny Rotten si fa gli affari suoi.
Qualcuno applaude la comparsa delle prime scie dai rombi stellari, lassù.
Oh we're so pretty, oh so pretty we're vacant, oh we're so pretty, oh so pretty we're vacant, ah but now and we don't care...

lunedì 14 marzo 2011

La via è invasa di cani morti, distribuiti in file ordinate. Schiene contro pance, zampe anteriori in alto, zampe posteriori in basso, come conigli spellati.
In una fila ci sono almeno venti cani. Le file sono compatte, a distanza di circa venti centimetri l’una dall’altra. Molto precise. La strada sarà lunga circa un chilometro.
Non è possibile evitare di schiacciarli. Cerco di viaggiare al minimo, sento lo scricchiolio delle ossa e l’ottusità della carne sotto le ruote.
Sembra non finire mai. Lungo i marciapiedi si stanno organizzando squadre di spazzini con maschere e guanti di pelle, enormi badili.
Le case sono di pietra. Nessuna finestra accesa. Leggera foschia, ovvia, miserabile. Odore di carne bruciata.
Devo arrivare alla fine del paese per proseguire oltre. Nessuno fa caso alla mia macchina.
Gli spazzini esitano. Li guardo davanti a me, poi ai lati del marciapiede, continuo a guardarli dallo specchietto retrovisore. Vanno avanti e indietro. Nessuno scende lo scalino che li separa dalla strada.
L’ultima fila di cani mi coglie di sorpresa. Scendo dal tappeto di carne. Mentre mi allontano il primo spazzino abbassa il badile sull’asfalto.
Accanto all’ultima casa, l’insegna di un bar. Mi fermo. All’interno mi sorprende l’eleganza dell’arredamento. Mi siedo su uno sgabello, ordino un B52.
Tutto il bar si ferma: il barista, i clienti al banco, i clienti ai tavoli, la cameriera, i tavoli e le sedie vuote, le pareti e i poster, qualsiasi cosa mi osserva. Il silenzio dura un bel po’.
Non ricordo il nome del paese.

(era un po' di tempo fa ma va bene anche adesso)

giovedì 10 marzo 2011

Il bisogno di costrizione mi rende amara e fessa. Suono come una campana incrinata.
Ferita, mi prendo il tempo di ferire. Cerco l’animale più feroce e sanguinante e affondo le mani. Frugo le viscere. Le tiro fuori. Le confronto con le mie. Mi piace tenerle esposte, legate alla pancia con uno spago, la corda degli intestini arrotolata fino al collo. Ti prevengo: troppo morbida ed elastica per strozzarmi. Intreccio le viscere dell’animale per renderlo simile a me ma, mi accorgo, non tutti sono abituati a godere dei vortici di un ventre vuoto. Lo guardo rantolare senza muovermi. Incredula, mi chiedo perché non sorrida e non mi ringrazi per l’operazione. L’animale, ingrato, si allontana per gemere da solo. Rimango lì, occhi rotondi sporchi che indagano senza conoscere. Piccoli e storti, bucati e macchiati. Sufficientemente onesti, di carne macinata trasparente e lucida. Stupida.

(Ancora 2006)

martedì 8 marzo 2011

Fai finta di niente. Guardati allo specchio, liscia i capelli. Nell’altra stanza qualcuno respira rumorosamente e non mangia più da solo. Fai finta di niente. Legati i capelli. Di là uno senza nome ha gli occhi lucidi per cumuli di ricordi piombati, all’improvviso, sulle spalle. Guarda fuori, fai finta di niente. Ogni stanza contiene pugnali nascosti dietro la porta. Appena entri, sei segnata. Guardati allo specchio appeso nel corridoio. Con una pinzetta, togli, a uno a uno, i peli delle sopracciglia fino a non averne più. Guarda gli occhi senza vestito e fai finta di niente. Mani che battono sulle porte, tamburi assordanti. Rimani lì, nel mezzo degli echi, guardati, occhi senza vestito, capelli legati, fai finta di niente. Idrata la pelle untuosa, dal colore grigio. Dalla cucina arrivano odori di cibo avariato, di incrostazioni sui fornelli, di spazzatura fumante nei bidoni senza coperchio, di brodo bollito fuori dalla pentola. Fai finta di niente, stendi il fondotinta pelle di luna sul viso e sul collo. Nel bagno, i rubinetti gocciolano, dai fori liberi dal calcare. Il tappetino di plastica della doccia è viscido. La finestra opaca suda. Finta di niente. Matita sul contorno degli occhi. Occhi rossi, nero sbavato. Alle spalle, una stanza buia di malattia e di fronte la stanza luminosa delle medicine. Scatole di siringhe, bottiglie, flaconi, aghi, mobili colmi di scatolette, cartine di tornasole del sangue, fiale. Alle spalle, la stanza di due morti, di fronte, la stanza di una morte. Si sa, le stanze da letto raccolgono cadaveri. Fai finta di niente, il pennello scivola lungo la palpebra di un rumore di sedia battuta per terra nella notte per svegliare tutta la casa. Finta di niente, ombretto, polvere nera circondata da gemiti notturni di uomini e donne. Rossetto rosso, non hai mai visto il sangue degli sforzi ma il vomito giallo di bile. Fai finta di niente, capelli legati, occhi nudi, neri, guance di luna, labbra rosse e accumula quello che rimane in un unico luogo. Non toccare più. Butta via i ricordi, tieni solo i rifiuti, per terra, nella stanza buia dove ancora dormi e ci sono foto di bambina su una strada di campagna, su un’altalena, fra le piante di un balcone, vestita da fata, seduta vicino a uno specchio. Le luci del corridoio sempre accese, fai finta di niente mentre cammini verso il fondo. Chiavistelli chiusi a proteggere da un fuori fresco di chiacchiere e risate, di macchine, pioggia e ali aperte. Il campanello suona. Chi è? Nessuna risposta. Chi è? Nessuna risposta. Fai finta di niente. Rimani lì, con l’ipotesi di un fuori, raccolta ad aspettare l’invasione che procede dalla parte opposta, schiacciata tra un campanello muto e un esercito di fantasmi. Fai finta di niente, sei pronta. Non preoccuparti, nessuno si accorge mai di niente. Tu parli, a volte, con voce serena e allegra, di superfici laccate pensando che qualcuno possa immaginarti senza trucco. Quanto sei bella, a volte, con le parole illuse che ti ornano il corpo, impeccabili e polverosi costumi da teatro. Quanto sei bella con le finzioni che, come impalcature, sorreggono la tua corsa. I tuoi racconti esitanti che non dicono niente, ti decorano il collo segato da due linee parallele, piegature della testa chinata. Innamorata non sai di che, non sai di chi, confondi i piani di realtà, intersechi, mescoli i tuoi rimedi, i tuoi veleni. Armata di ombrello, torna indietro, guardati allo specchio del corridoio, da lì, nei sogni, i tuoi volti ti chiamano a raggiungerli. Dalla stanza luminosa delle medicine entra il sole e, alla finestra, vedi un’immagine tagliata e felice di chi mai ti ha guardato felice. Porti fuori di casa i doni per la tua nuova casa. Li usi, rinnovati, dipinti, rinati. Il trasloco ti affatica e ti sorprende. Fai finta di niente, rimani divisa tra mondi divisi, spezzata tra mondi spezzati, parziale tra mondi parziali. Coltivi le piante con la cenere. Entri ed esci, entri ed esci, entri ed esci. Facendo finta di niente ti sei trasformata in un andirivieni assonnato, automatico. Giorni felici. Davvero. Adesso. Esaltati dalle scoperte, bagnati dalla stanchezza.

(Era il 2006, credo)

sabato 5 marzo 2011

sono due
sempre due
nient'altro che due
perché uno si è aggiunto a un altro
prima era uno
e sempre e solo uno
poi è arrivato l'altro
in un angolo
non si mostrava
ora sono due
uno di fronte all'altro
dammi uno schiaffo
senza emozioni
picchia
come apri una bottiglia
o sali le scale
dammi uno schiaffo
te lo restituirò
per farti sapere
come deve essere
uno schiaffo nella norma degli schiaffi
uno schiaffo che è uno schiaffo
ché il suono del gesto è migliore del suono della parola

clown (e questi sono ricordi)

venerdì 4 marzo 2011

Miss X

Cammino tutte le notti insieme al bianco dei miei occhi.
Perimetri e diagonali, raggi, diametri e angoli.
Senza capriccio, trasportata da mani altrui, la natura di cui mi vesto disegna movimenti microscopici. Come abbandonarsi alla seduzione, girare in mezzo alle voci, fermarsi e ripartire.
Cammino tutte le notti insieme al bianco che mi uccide gli occhi. Obbedisco. Mi tolgo gli occhi per riposare, la mia disgrazia è che non posso dormire ad occhi chiusi. 
Se all’alba sono stanca, a mezzogiorno sono dentro i miei sogni e alle cinque del pomeriggio non riesco più a dominarli.
La sera espongo le mie lune al buio, cantando per non morire mai, viaggio per le mie vene; nell’odore del metallo invecchiato, lascio impronte scivolose. Rapisco ciò che ho di più fragile e rimango innocente.

Al risveglio, indosso i miei occhi.
Vedo pareti, sedie e tavoli, una vasca da bagno. Nuoto nella mia vasca. Mi trucco per il desiderio. Controllo capelli e denti. Mi mettono la divisa.
Accetto. Mi faccio portare. 
Mi guardo alla luce.
Chiudo gli occhi e cerco di ricostruire quello che ho osservato. Non ricordo.
Apro gli occhi, guardo, ho un taglio sulla mano destra. Ieri non c’era.
Chiudo gli occhi. So di avere una mano, la sento. Non riesco ad immaginarla.
Ricordo tutti i cambiamenti, ho elenchi di cambiamenti, trame di cambiamenti, monumenti ai cambiamenti. 

La notte, senza occhi, sogno. Uomini decapitati camminano con la testa sotto braccio. Li vedo scendere dalle scale, in fila.
Ascolto le loro voci.
Si muovono al buio, assassini e vittime, secondini e carcerati.
Arrivati in fondo, i corpi ammucchiano le teste dentro una vasca, ordinatamente. Le teste perderanno gli occhi. Tutti gli occhi saranno messi in un vaso e, finalmente, le teste potranno dormire.
Ho visto e dimenticato, vedo di nuovo ed è sempre la prima volta.
Ho visto il mio volto allo specchio e ricordo di averne uno perché una mano lo tocca. Non la mia.
So di avere due mani perché posso tenerle sempre sotto gli occhi.
Sono rimasta senza faccia. Non la ricordo, non la immagino, non riesco neanche a inventarla. Forse ho la faccia di un fumetto con gli occhi più grandi del naso e la bocca che va da orecchio a orecchio. Apro la bocca, gonfio le guance, inarco le sopracciglia, apro e chiudo gli occhi. Ho una faccia, non ho dubbi.
Senza gli specchi, non esisto. Sono una forma senza connotati.
Sono nel posto in cui si trovano le mie braccia, le mani, il seno, la pancia, il ventre, le gambe.
L’intero se n’è andato, sono rimasti solo i pezzi.
Il vuoto tra gli occhi e lo specchio ha tradito la mia memoria. Sono quello che vedo: dipende dalla posizione degli occhi. Alto, basso, lato destro, lato sinistro, di fronte.
Chiedo ospitalità a stanze, luci, scatole, vasi, armadi, cassetti.
Cerco uno spazio adatto alla mia misura.
Mantengo efficienti le funzioni fisiologiche.
Non è poco, mi dico. L’intero è lontano.
Potrei vedermi con gli occhi della mia testa tagliata.
Tenerla come uno specchio. 

Non ricordo di cosa ho paura. Forse è fame. Stanchezza e rabbia sono sorelle.
Quando mi batte forte il cuore, apro la bocca per mangiare.
Quando ho caldo, piango.
Quando ho freddo, urlo.
Quando perdo sangue, urlo.
Ho il mio codice.
Fuori dal codice, tutto è confuso ma la vita è semplice se è ridotta a poche azioni.
Non mi chiedo di cosa ho bisogno.
Non so di cosa ho bisogno.
Non decido io di cosa ho bisogno.
La carne è flaccida e andata a male.
Ingannarla. Non ci riesco.
Divertirla, distrarla, farle credere che cedo ai suoi desideri. Non ci riesco.
Posso diventare un’eterna partoriente, rendere il mio ambiente asettico, bianco, inutile, vuoto; sprofondare in un tubo luminoso e liscio che odora di disinfettante, fare di me stessa un canale di sola uscita.
Come una sfida, come un circo, come di fronte a parole inumane. Ché non so dire nulla.
Salgo sul trapezio.
Faccio il triplo salto mortale.
Parlo sei lingue.
Cammino sul filo ad altezze smisurate. 
Competo con l’abisso.
Sono un’operazione dentro un’equazione, sono un numero, un concetto matematico, sono la dimostrazione di un teorema.
Così divisa, posso essere dappertutto, disperdermi e ricompormi, scivolare come l’acqua, con la mia testa, per svegliarla e riattaccarle gli occhi.
Perdere la visione di dentro per la visione di fuori.

giovedì 3 marzo 2011

In caduta libera, senza salvaslip.

Incollo la pelle a questa casa ma la pelle si strappa, l’intonaco cede. Tutto crolla. Lascio andare.
Voglio vederla da lontano, la casa azzurra, palafitta sospesa, un enorme tubo rosa per ascensore. Bella.
Cammino all’indietro andando via senza staccarmi del tutto.
Quando i miei dieci decimi non serviranno più, potrò voltarmi.
Ci sarà altro da mettere a fuoco.
Un paese più freddo.
Una solitudine più perfetta.
Per il momento, faccio i bagagli per proteggermi, armi, corazze, elmi, ginocchiere.
Domani una folla mi circonderà e io potrò sorridere, con i talloni avanti a me.
Mi chiederanno di ballare e forse dirò sì e forse dirò no.
Scelte così piccole mi inseguono, sempre più deboli, perdono importanza.
Voglio essere calma.
Nell’incertezza, mi sento protetta.
La certezza incerta senza speranza che mi hanno donato mi cola addosso come cemento a pronta.
Ma sono diventata veloce e pulita da bruciare.
Io me ne vado, miei amati.

Così ritorno seduta davanti all’oblò della lavatrice.
La stoffa prende acqua e cede forma.
Quando il cestello è pieno di lenzuola macchiate di sangue in gocce, rivoli e pozzanghere e merda e piscio, rimango incantata a guardare la schiuma che sale da bianca a rosa a marrone.
Le gradazioni di colori, come scale di vetro.
Il rubinetto aperto si svuota di acqua fredda.

Non ho altri sogni da raccontare, mi dispiace.
Mi dispiace perché non ho nient’altro che sogni da raccontare e, se non ho sogni, se non ho sogni, per tutto il tempo, il tempo passa, il tempo passa.

martedì 1 marzo 2011

Memorie di corpi

Quando smetti di ricordare il rumore del coltello sulla carne, vuol dire che non sei più tu. Hai cambiato identità.

Quando le ferite si rimarginano e le vedi sfumare senza lasciare traccia, vuol dire che sei morta, il tuo sangue non scorre più. Vuol dire che affidi la tua memoria ad altri e sei finita, per sempre. Vuol dire che hai perso il controllo e non ricordi più il tuo nome.
Hai spostato il tuo peso all’esterno e sei convinta che ci sia un dentro separato da un fuori e un dopo causato da un prima.
Quanti dopo puoi contare senza che ci sia un prima, questo è l’importante.
La tua memoria è andata avanti invece di tornare indietro. La tua memoria può chiedersi solo cosa c’è dopo.

Apri il cassetto, vedi allineati tutti i tuoi strumenti. Se ti sembrano estranei, sei una morta che cammina. Usali per incollarti a te stessa, se ancora credi di esistere.
I tuoi passi non fanno più rumore, scivoli beatamente sul terreno più accidentato, del tutto inconsapevole e inebetita da quello che chiami passato o storia o vita.

Il primo coltello che hai usato stava nella cassettiera della cucina, un lungo coltello dalla lama dentata, molto affilato. Abituato alla carne, è bastato passarlo delicatamente sulla gamba sinistra, appena sopra il ginocchio, per veder uscire il liquido rosso.
La prima volta si è sempre imprudenti, ci si lascia prendere dal piacere dei sensi. Non si conosce la gioia di un rito ben orchestrato. Ci si affida a gesti inconsulti e animaleschi: grattare con le unghie, strappare le croste e godere degli zampilli che cadono in piccoli puntini rossi sul lenzuolo con cui ci si avvolgerà per dormire. È un piacere primitivo.

La prima volta che hai acquistato un coltello è stato il primo passo per fare delle tue scelte una collezione di cui avere cura.

Il secondo passo è stato scegliere le parti del corpo da tagliare, capirne le differenze anatomiche. Se non domandi, non hai responsabilità.

I coltellini da tasca così comodi per uscire, il rasoio per giocare, lame seghettate per i momenti più segreti, una realtà che rischia di disperdersi insieme a te.
Se non distingui le tue armi, non distingui i tuoi stati d’animo.

Apri il cassetto e scegli. Il tagliacarte con il fodero e il manico di legno ha una lama un po’ consumata ma ancora tagliente. Mettilo sul tavolo insieme alla garza bianca, all’acqua e al disinfettante. Non guasterebbe un po’ di fuoco anche se non è uno strumento molto sofisticato.

Siediti, diventa un’attrice. Segui la tua partitura, concediti poche improvvisazioni, in fondo non sei che una dilettante. Ancora ti vergogni.

Se non superi la vergogna, rimani legata al prima. Ogni tuo dopo avrà bisogno di un evento causale. Lascia che a un dopo segua un altro dopo e un altro dopo e un altro dopo ancora. C’è un solo prima. Che il tuo corpo ne diventi la tua memoria.

Le procedure nell’uso dei tuoi strumenti hanno una qualità estetica che supera la somma dei vantaggi che ti procurano. Se all’inizio sei colpita dal sollievo suscitato dalle tue pratiche, nel tempo scopri di ricavare piacere dalla scelta dei momenti, dalla preparazione, dalla cura, dall’attenzione prestata ad ogni singolo atto necessario a compiere la tua opera.

La tua opera è il tuo corpo. Le modificazioni che il tempo gli impone non influiscono sul tuo lavoro se dedichi la tua vita all’arte.

Rendi i tuoi atti del tutto inutili. Cedili ad una ripetizione infinita. Fidati delle tue mani, non temere l’imposizione di una sterilità senza scopo.

Puoi imparare nuove tecniche, se questo ti fa sentire meglio, ma le fughe non servono. Non serve rivolgersi ad altre mani.

L’opera d’arte è segreta, nessuno deve vederla fino alla fine. Se non è la completezza che cerchi, è meglio che lasci perdere.

All’improvviso ti accorgi che la pelle cade dalle ossa, la carne non ha consistenza, la prendi tra due dita e rimane piegata, molle come stoffa. Anche i colori sono cambiati. La faccia è sempre stata gialla ma ora lo sono anche gli occhi e i denti. I capelli si sono diradati. Assumi una postura curva e prendi l’abitudine di sederti di traverso appoggiando le gambe e la schiena ai braccioli di una poltrona come per rimanere raccolta e non disperderti. Sei una lumaca e, in piedi, un albero bruciato. Distesa, un tronco senza gambe.

Il dolore arriva dopo il taglio, con calma, non è mai immediato. La ferita pulsa al ritmo con cui esce il sangue, che provvedi a tamponare con cura. Il mucchietto di garze e cotone insanguinato è testimone della tua commozione.

Non lasciare che i tuoi segni svaniscano del tutto. Rinnovali più spesso che puoi, fanne di nuovi. I tuoi segni non sono parole, sono simboli, sono interi linguaggi, sono mondi, intere culture, sono il libro della tua liturgia. Non sono racconto. Sono la mappa per entrare nella mente.

L’unica verità raggiungibile è che facendoti male allontani la morte. Nessuno può farti più male del tuo coltello.

Quelle fragilità che ogni tanto si affacciano, riflesse in altri occhi, sono il ricordo di un desiderio. Tienile con te.
Chiedi cos’altro puoi sapere.

mercoledì 23 febbraio 2011

È successo così.
All'inizio è apparsa vicino all’occhio sinistro, ma poi non c’era più.
L’ho cercata, è successo così ma non c’era più per fortuna, poi è scesa sul collo e c’è rimasta un bel po’.
Non usciva sangue.
Era solo una macchia rossa.
Poi non c’era più. L’ho vista sulla spalla destra e poi vicino all’orecchio sinistro.
E' una piccola cosa, non si vede nemmeno, non se ne accorge nessuno.
Sono cose che possono succedere a tutti comunque non si vede, nemmeno un po’.
L’ultima volta che l’ho vista era qui, proprio alla base del collo, al centro e, se ci fosse ancora, la vedrei ma non c’è, comunque, ecco, anche quando c’era, non si vedeva granché cioè io la vedevo ma gli altri no, non credo, mi sa che non la vedeva nessuno.
Ora potrebbe essere ovunque.

domenica 20 febbraio 2011

No quarter asked, no quarter given

timido, un tentacolo dopo l'altro sfila i guanti piumati
le ventose liberate immediatamente succhiano liquidi primari

ti prego, confondi tutti i miei otto e più lati oscuri

ti prego, polpo hentai, aggrediscimi

lunedì 17 gennaio 2011

Polpo e polipi

Mi sono distratta. Non mi distraggo un attimo. Ho tutto sotto controllo. Qualsiasi parola, io la conosco e, se non la conosco, vado a conoscerla e quando l'ho conosciuta, la temo. Non ho tutto sotto controllo. Ma sono un polpo. Un polpo che genera ragnatele. Ho otto tentacoli. Da ogni tentacolo escono otto ragnatele. Mi allargo. Occupo spazio. Sono un piccolo polipo. Tutti i piccoli polipi che ho nel cervello si allargano contemporaneamente. Mi sono distratta. Non mi distraggo un attimo. Tutto è fonte di probabili tragedie. Non si fa più festa. Ho dimenticato di fare qualcosa. Ho mancato. Ho omesso. Ho taciuto. Mi dolgono i tentacoli.