giovedì 29 dicembre 2011

Stanotte una rana verde lucido e oro trasparente mi ha infilato la lingua in gola. La fine dell'anno sarà condita da salse all'aglio e funghi trifolati. Cucchiai pieni di maionese saranno spalmati sulle mie lenzuola e io ti aspetterò grondante latte condensato dalle mie narici, le mutande inchiodate alla pelle, i peli arrotolati intorno ai chiodi. Ci metterò più di una notte a prepararmi. Ma infine, mamma, saprai riconoscermi lo stesso. Tu così bella e scura in volto. Con i tuoi capelli composti, le mollette a trattenerli, una a destra, una a sinistra, i tuoi occhi bruni, la pelle liscia, le labbra anemiche, impolverate di farina. Mi offrirò di portarti vassoi di carne cruda farcita di agrumi, foglie di acero e fango rosso di cipolla fermentata. Come sei bella, mia madonna della morte dell'anima, come vorrei essere parte di te come lo sono stata un tempo ma io sono più leggera dei tuoi giorni ciechi, trascorro come un fantasma nei tuoi corridoi tappati. Ti dico un addio d'amore, distillato e puro come il frutto di una quercia, cibo da maiali, mamma, cibo del re.




Black hole sun - Soundgarden

mercoledì 14 settembre 2011

Saluto e mi allontano. Volto la schiena e mi allontano. Alzo i tacchi cammino faccio qualche passo mi fermo l'avrò detta quella cosa quella cosa l'avrò detta e se non l'ho detta come la prenderà cosa penserà di me forse penserà che ho fretta che sono distratta non che sono maleducata e egoista ma l'ho sicuramente detta quella cosa io non ne sono certa provo subito a telefonare scusa sai non sono sicura ma ti ho salutato prima? No scusa sai è che sono così distratta non vorrei sembrarti trascurata. Ma guarda che mi hai salutato più volte. Ah scusa scusa è che ho tanti pensieri per la testa e scusa penserai che sono una stupida. No figurati sì certo che lo pensa però almeno adesso sono sicura che ho detto ciao cioè non so se ho detto ciao o buonasera o magari buona serata e avrò detto a domani? Cioè l'appuntamento di domani sarà chiaro? Ma lo vedremo domani. Se non viene vuol dire che non ci siamo capiti. Già. Sono stata svagata non ho posto attenzione a tutte le parole una per una ci siamo salutati all'inizio ho chiesto come stai? Per non essere considerata troppo egoista. Ho ascoltato la risposta? Non mi ricordo come sta. Avrà detto bene insomma si va avanti come sempre più o meno bene sì bene dai. Cosa può aver detto? Mi sarei ricordata se avesse detto qualcos'altro. Sì insomma una malattia o magari la nascita di un figlio o di un gatto o un trasloco. Avrò chiesto come sta la sua famiglia. Avrà capito che non mi interessa. Ma io non devo aspettare solo le informazioni che mi interessano e io cosa avrò risposto? Non ricordo se mi ha chiesto come sto. Ma se l'ho chiesto io non vedo perché debba aver ricambiato per forza. Sennò sembra che uno lo faccia solo per educazione e non sta bene. Se uno chiede deve chiedere davvero e non solo per forma. Quindi se l'ho chiesto io non è stato chiesto a me. Forse mi comporterei così o forse no non farei così. E se non l'avessi chiesto per prima? Se fossi stata io la seconda? Resta il fatto che non ricordo se l'ho chiesto. Cos'è che volevo sapere. Di così importante. Non lo ricordo ma se era così importante perché non lo ricordo? Provo a ricostruire l'incontro e tutta la conversazione. Si sarà accorto che volevo evitarlo. Ho fatto un sorriso forzato? Ma lo faccio sempre anche se sono contenta perché non sono mai contenta quindi il sorriso è comunque forzato. Non è perché non voglio incontrare qualcuno comunque l'avrei voluto evitare è chiaro. Quindi se ne sarà accorto. Ho tenuto i piedi voltati verso la direzione che volevo percorrere? Come per andare via? Il mio sguardo ha scavalcato il suo viso lo ha attraversato mi sarò voltata al più impercettibile rumore? Dunque avrò sorriso e salutato un saluto qualunque. Nessun contatto fisico questo credo di ricordarlo. Non potrei dimenticarlo. Oppure. Saltiamo i saluti. L'avrò guardato negli occhi un momento. Non ho chiesto come sta ho chiesto come va. Più neutro. Se l'ho chiesto ho chiesto come va. I capelli un po' troppo lunghi. Ai lati e la barba di qualche giorno e gli occhi un po' arrossati ma c'è vento c'è vento e anch'io sento bruciare gli occhi sulla passerella pedonale che attraversa la ferrovia e da cui a un certo punto si vede solo il cielo. E allora quello che volevo sapere riguardava forse qualcun altro o qualcos'altro sul passato o sul futuro forse su dove stava andando. Era solo una curiosità nel caso. Ci sono altre informazioni di grande importanza che avrei potuto chiedere e sicuramente le ho chieste. Ero distratta anche dal torcicollo e da una sensazione di gonfiore al viso. Penso che avrò tastato le guance più e più volte senza rendermene conto e sicuramente non avrò ascoltato. Perché io non ascolto quasi mai. Perché mi concentro sulle sensazioni e non riesco a fare due cose contemporaneamente. Mi sa che aveva fretta e avrà detto ci sentiamo presto o ci vediamo domani e parliamo un po' e allora l'avrò salutato ancora. Certamente se me l'ha detto anche al telefono vuol dire che è vero a meno che non l'abbia fatto per non farmi sentire troppo stupida. Ma si sarebbe fatto una risata se non l'avessi salutato e poi l'avessi chiamato per salutarlo perché uno non se la prende se non viene salutato senza motivo. Mica ce l'ho con lui. Non abbiamo mica litigato. Non ci siamo detti nessuna parola cattiva. Nessuna allusione nessuna ferita nemmeno un peccato veniale. E se avessi fatto una gaffe come capita spesso non ho alcuna delicatezza nel trattare argomenti intimi e. Ma non mi sembra che abbiamo affrontato discorsi troppo personali forse abbiamo parlato del vento delle nuvole del tempo incerto e di quanto era strano incontrarsi proprio lì. Che poi perché strano. Ma questo lo penso io. Sono solo ipotesi bisogna che le metta tutte in fila una per una tutte le possibilità e che scarti quelle più improbabili e mi tenga quelle più probabili. Ecco e poi avrò una sintesi veritiera della nostra conversazione. E forse le informazioni che avrei voluto avere. Forse sono nascoste da qualche parte e adesso mi sfuggono. In quei fili di capelli fuori posto unti. Di chi non ha dormito a casa. Ma questo non è stato oggetto di conversazione. D'altronde io andavo a fare la spesa e l'avrò detto di sicuro. Che fai vado a fare la spesa. Questo è certo. Vado a fare la spesa. E ho la lista in tasca e questa è la cosa più importante che ho da dire. Sicuramente l'ho detta. Certo traspare una certa malinconia per come la vedo io sono sicura che avrà pensato quanto è triste una che non ha che da dire che va a fare la spesa. Già. A me i supermercati piacciono e non devo parlare con nessuno non chiedere non rispondere. Prendere lasciare riprendere pagare. Niente da registrare. Io amo le cose semplici ma non come pane e olio. Piuttosto come un programma televisivo di cui non ti perdi niente. Non rischio di perdermi niente. Io ho paura di perdermi troppe cose tra quelle che mi stanno intorno e quelle che mi camminano accanto e ora ho il pensiero dei tubi che perdono sotto il lavandino della cucina per questo non riesco a ricordare. Sono poche gocce ma non riesco a ricordare. Se fosse accaduto qualcosa me lo ricorderei. Se mi fosse caduto qualcosa dalla borsa me lo ricorderei io non perdo niente. Perdo parole. Ma perché non sto attenta alle voci. È l'incertezza secondo me che rende difficile ricordare. L'incertezza di aver capito in quel preciso momento. Il chiedersi sempre in quel preciso momento se ho capito bene. E questo mi fa perdere le parole successive e poi quelle successive e poi ancora e ancora. Non riesco più a recuperarle. Comunque ora so che ho salutato andando via perché l'ho chiesto e forse potrei chiedere altro. Tutte quelle gocce, una dopo l'altra, infinite, rimangono sospese e cadono, rimangono sospese e cadono. È la stessa goccia? Potrei chiedere di cosa abbiamo parlato. Ma di niente di niente. Mi risponderà. Proviamo. Forse mi risponderà così. Abbiamo parlato di niente. Non ti preoccupare. Non mi preoccupo. Io domani non vado. Non credo che ci sia un appuntamento. E non lo chiedo. Sicuramente mi sbaglio. L'autunno mi cola dentro il cranio. Gonfia, si dilata come una spugna. Io voglio guardarlo dai vetri. Essere spremuta via.


Chet baker Autumn leaves

martedì 6 settembre 2011

L'orribile, quand'è ingenuo e leggiadro, è una categoria poetica per palati raffinati.

Ancora non ne ho incontrato uno.

Che potesse amarmi per le gengive e le unghie dei piedi marce.


Appagata, sorpresa di pavoneggiarmi e vendermi in una vetrina colorata, Barbie gigantesca dalle molteplici sfumature: ché i capelli grigi con la tintura nero-blu prendono solo il blu; ché gli occhi sono verdi ma anche ambra; ché la pelle è bianchissima ma il viso si arrossa subito con il sole, il sudore e la pioggia; ché sto muta e fissa come una bambola sul letto senza abito di pizzo.

Impolverata di sconti stagionali, sopra velluto rosso, di fronte a un giardino con bambini-genitori-ragazzi nudi al vento, unti di olio abbronzante sotto un cielo che cambia spesso.

Dietro il culo dell'orso, nella speranza di essere risucchiata da qualche potente effetto generato dalle sue flatulenze, come nel tubo di una onanistica underground.
Sollevata dal sentimento di finire i miei giorni in qualità di butt plug, verso sera, sulla strada, mi sfilano davanti le mie paure sdentate e sorridenti. Alcune fanno il segno della croce, altre il saluto militare. Nessun segno di rispetto. Sono io, visione grottesca per loro.

Denudata, pasto di cadavere arrugginito dallo stare troppo fermo, pelle disegnata in arabeschi di incisioni pennellate di mercurocromo, capelli impastati intrecciati di intestini di pesce, posso affermare che, se avessi due tette normali, mi sentirei a mio agio in questo anfratto carnoso, invece ho due mammelle di vacca piene di vermi che si affannano a succhiare latte, già panna acida da vendere per la nouvelle cuisine.

Le possibilità infinite del mio corpo mi annebbiano, mi ubriacano, si affollano urlanti alla porta dopo l'orario di chiusura.

Mi alzo, apro, sono affogata da un nugolo di coccinelle portafortuna che, svolazzanti, mi agguantano la pelle senza lasciarne un millimetro scoperto e mi salvano da un'altra noiosissima serata. Armata di cucchiaio e martello, mi batto ritmicamente ogni parte del corpo.

Le dolci fatine colorate si alzano in volo per poi posarsi di nuovo, ferme nel loro proposito di felicità. Non mi scoraggio e non smetto finché non le vedo ai miei piedi in una pozzanghera rossa e nera, scricchiolante e ancora parzialmente vitale.

Ascolto piccole ali che frullano, poi niente.

Raccolgo zampette, ali e testoline con pazienza amorevole in una ciotola di coccio.

Cotte in acqua e zucchero, saranno la marmellata per la mia colazione dei campioni.

Durante la preghiera della buonanotte, esprimo gratitudine per l'opportunità di vivere addomesticata dal sonno.




Berlin Lou Reed

domenica 21 agosto 2011

Tolto il miglio dalla vaschetta, lavato molto accuratamente con acqua fredda, messo a scolare, tostato con olio d'oliva, cotto in acqua bollente per venti minuti. Questa la mia cena.
Ho avvolto il tuo corpicino nudo nella federa di un cuscino. Pelle di paura o freddo.
Userò le piumette da neonato per imbottire un cuscino da scoiattolo.
Ti ricorderò appena, con il tuo canticchiare stentato.
Credimi, il rigore della morte ti ha reso più bello da accarezzare.
La mattina che ti ho trovato sul fondo della gabbia, ti ho raccolto.
Seduta sul balcone, con un grembiule da cucina indosso, ti ho staccato le piume, una ad una.
Appenderò il tuo ritratto in bagno. Ti guarderò facendo la doccia, quando sono più fragile, farò finta di piangere confondendo acqua e lacrime sul mio viso, sul mio collo.
Beata te, mi dicono spesso.
Beata te, echeggia il tuo canto.
In tempo di carestia ho pensato solo alla mia sopravvivenza come il peggiore dei carnefici.
Tutti i beata te non sono ancora colati sul pavimento bagnato...
(forse continua)

sabato 25 giugno 2011

Penso alle promesse che nessuno mi ha fatto, ché io posso sperare solamente, di essere tradita.
Tutto fila liscio, il camion che raccoglie la carta carica un bidone troppo pieno e lascia volare a terra brochure con gli sconti, scatole per la pizza e riviste.
Un uomo sulla settantina, in canottiera, pantaloncini e guanti di lattice, esce da chissà dove, raccoglie tutto e lo rimette nel bidone.
Ti ammiro mentre fumo la cenere sui rimasugli di capelli che hai in testa. Ammiro la tua abnegazione, la pulizia sbrigativa e l'organizzazione che dimostri. Se incrociassi lo sguardo di qualcun altro, lo inviterei ad applaudirti, non posso battere le mani da sola, mi rende troppo triste.
Solo un appunto, Gentile Signore, hai buttato i guanti di lattice nel bidone sbagliato.
Le nubi si tingono di verde, io non ho voglia di tornare a casa. Non ho voglia di tornare da nessuna parte.
Mi vedo con una camicia da notte di cotone, a fiori rosa, con tre bottoncini al centro della scollatura. Cammino tenendo un piatto con la mano sinistra. Con la destra prelevo ritmicamente parte del contenuto e lo infilo in bocca. Ingoio palazzi e finestre. Tutti gli umani affacciati scivolano dentro le mie fauci grondanti miele e glucosio liquido. Prendo la direzione del tramonto. Fumo bianco esce dalla mia bocca e dal taglio del ventre, mi rende una figurina ridicola. Aggiungo ciabatte di velluto rosa e bigodini nei capelli ad annunciare la notte. Voglio poter raccontare una storia. Voglio avere dei ricordi. Procedo come una sagoma da riempire di luce, vado a bruciarmi la pelle. La notte non arriva mai. La notte ha guanti di lattice. Non arriva, non arriva mai.



Jefferson Airplane - White rabbit

martedì 21 giugno 2011

Canzone per L.

L. ha un dolore al mignolo del piede destro.
L. ha il senso della comunità e non teme l'altro.
L. bussa alla porta del vicino di casa.
L. ha un abito arancione con le gale alle maniche.
L. sente grande affetto per i canarini.
L. si ciba di radicchio selvatico.
L. nuota a delfino per due ore al giorno.
L. dorme otto ore per notte.
L. mangia cereali a colazione.
L. ha delle fitte all'occhio sinistro.
L. è assistente di volo.
L. gioca con il lego.
L. ha trovato il mattoncino mancante.

Il padre di L. è orgoglioso di lei.
La madre di L. è stata un'ottima insegnante di igiene intima.

L. sale al cielo tutti i giorni.
L. si prepara il tè la domenica pomeriggio.
L. va al cinema da sola.
L. ama il silenzio della sala e il buio.
L. immagina di essere divorata viva da granchi mutanti.
L. è andata all'asilo solo per un anno.
L. ascolta musica nella notte.
L. ascolta musica con la finestra aperta.
L. aspetta qualcuno che la insegua.
L. suona il tuo campanello.
L. ti chiede se puoi aprire.
L. urla apri.
L. urla apri.
L. scuote il portone.
L. urla apri.
L. si addormenta sugli scalini.
L. ha le cuffie con volume altissimo.
L. scrive tutto quello che le capita.
L. scrive tutto quello che le dicono.

L. scrive l'elenco dei suoi indumenti catalogati nelle seguenti categorie: biancheria intima, calze, sopra, sotto, scarpe.
Le categorie vengono inserite in una tabella e incrociate con i giorni della settimana.
Lo scopo di questa operazione è riuscire a non indossare lo stesso completo per più di un giorno ogni sette.
Tutti i compiti svolti da L. hanno lo scopo di mantenere il buon andamento della sua vita quotidiana.

L. si sveglia sugli scalini.
L. ha un dolore all'anca destra.
L. siede al tavolino di un bar.
L. ordina caffè e due tranci di torta alle carote.
L. entra nella toilette del bar.
L. tira fuori asciugamano, detergente per il viso, deodorante, spazzolino e dentifricio.
L. si lava con acqua fredda.
L. paga il conto.
L. torna a casa.
L. ha dimenticato di pagare il gas.
L. si siede vicino alla finestra.

Dietro la tenda, con un'altra tazza di caffè, ascolta le trasmissioni del mattino, spalle al televisore.

L. prende il telefono.
L. fa il tuo numero.
L. parla alla tua segreteria.

Ogni minuto che riempie delle sue parole sarà cancellato al primo respiro.
Da te.

L. continua a registrare senza sosta.
L. aggiorna la tabella degli indumenti.
L. prende appunti sulla conversazione con il barista.
L. trascrive le sue frasi alla segreteria.
L. scosta la tenda.

Un uomo su una scala sta imbiancando l'appartamento di fronte.
Un lampadario con cristalli pendenti oscilla e colpisce la scala.
Una goccia cade con rumore di metallo.
Una lacrima acida buca gli strati degli indumenti già catalogati per oggi.
E maglia gonna e collant saranno relegati a oggetti casalinghi.

L. scrive la sua lettera quotidiana indirizzata a te.
L. uscirà tra poco per imbucarla.
L. conserva i francobolli in un cassetto della scrivania.
L. ha la valigia pronta.
L. parte in anticipo.

L. scrive: e se non sai fare altro che ripetere, dovresti accontentarti di quel buio che precede il film, del brusio delle videocassette e dell'eco dei passi dei granchi sul pavimento di marmo.
Rannicchiata sulla poltrona, le ciabatte sono già stracciate.
Lenti onesti animali iniziano a scalare lo schienale.
Le chele accarezzano i capelli, sistemano il taglio.
In tre, aggirano il collo per agganciarsi alla bocca e lacerare la lingua.

L. continua a scrivere.

Deve ancora compilare l'elenco dei cibi consumati durante il giorno.
Dei cartelloni osservati per strada.
Delle canzoni ascoltate.

L. è in ritardo.
L. non vorrebbe mai lasciare un lavoro a metà.
L. guarda la luna che si immerge velocemente in un latte di fumi chimici.







Lonely day – System of a down

giovedì 16 giugno 2011

Let paranoia in

L. entra nel bar dove fa colazione un paio di volte alla settimana.
Il barista, pettinato come Big Jim, ha sì e no vent'anni ma ne dimostra quaranta; la scorge in mezzo a vecchi, impiegati e commesse e le prepara il cappuccino senza dire niente. Un dito sotto il bordo della tazza, a dire la verità: manca latte.
La proprietaria, capelli cotonati e un enorme crocifisso tra le pieghe del collo, gira tra i clienti con un bavoso in braccio.

“Buongiorno, Signora.”

“Buongiorno, L.”

Il bavoso starnutisce dentro il cappuccino. L. si scansa e ne infila mezzo nella scollatura. Si volta, bestemmiando sul reggiseno trasformato in tazza. Pensa di chiedere una cannuccia per poter raccogliere il liquido che staziona tra i seni ma, indovinando lo sguardo del tavolo di pensionati di fronte a lei, decide di assorbirlo con qualche fazzoletto di carta.
La signora le ballonzola accanto.

“Ci scusi, mi scusi, è così piccolo, ha sei mesi, è il mio nipotino. Mia figlia è andata a un colloquio di lavoro, si sa, con un solo stipendio non si campa una famiglia.”

“Nemmeno un individuo, Signora.”

“Eh, ma quando ci sono i figli, cara...posso darti del tu? Dai, prendilo in braccio. Senti quanto pesa...”

“Grazie Signora, come se avessi accettato.”

Nel senso dell'accetta.

“Ti faccio rifare il cappuccino, cara?”

“No, grazie, tanto non mi andava stamani.”

L. cerca una via d'uscita, per fortuna fuori piove. La matrona le corre dietro col bambino.

“E tu, non hai una famiglia?”

L., incrociando le dita nella tasca dei jeans, fa cenno di no. La dolce capobranco china la testa, strizza gli occhi porcini e distende la bocca in un sorriso compassionevole.

Se tu fossi mia madre, avresti già ricevuto un colpo d'accetta sul taglio delle labbra e un altro a spaccare in due la testolina da media statistica di donna italiana nata tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta. Ti ci metto dentro la carta assorbente, cara, così ripuliamo quella inutile pappa grigia contenuta nella tua scatola cranica. La sostituisco con penne al pomodoro, basilico e un po' di parmigiano. Richiudo con due strisce di silicone trasparente.

Ora porta via il tuo frutto bagnato di schiavitù e fammi uscire.
Vedrai che, quando sarà grande, ti strangolerà con la catenina d'oro, quella con il ciondolo ad angelo custode che gli avrai senz'altro regalato per la prima comunione.
Speriamo. Sarebbe un bel passo avanti per l'evoluzione della specie.

“Buongiorno, Signora.”




(I'll cast a shadow - Pantera)