domenica 29 maggio 2011

Dancing days

Le nuvole scivolano sui tetti. Ogni tanto sembra che si fermino.
C'era troppo olio arancione e non ho potuto finire. Hai sollevato il piatto, l'hai appoggiato alle mie labbra e me l'hai dato da bere. Tutto quell'olio fritto arancione. Tu vuoi creare fodere protettive per le mie fragili, infiammabili mucose. Grazie.
I vicini dell'India stasera ricevono. La bambina veste di rosa shocking lucido e trasparente. Dancing days are here again, as the summer evenings grow.

Le nuvole scivolano indietro, verso il luogo dove sorge la luna. Scarafaggi tutti uguali per forma e misura, passano in fila sulla ringhiera sbucciata e mi fa male il collo per come lo hai tenuto stretto.
Quattro ragazzi albanesi e una porsche fanno i gradassi per la commessa della profumeria. Due operai e cinque birre stazionano vicino al bidone giallo, per la raccolta di carta e cartone; un lavandino sta sul marciapiede, sopra una spaccatura grigia che lo attraversa da parte a parte. Non ci sono tracce del pezzo mancante.

Ho tre peli sul mento. Un fegato irrorato di miele. Ho la luna storta con il baco dentro. Porta fortuna. Chiacchiere ne faccio il meno possibile, soprattutto sulle frustrazioni delle casalinghe che indossano le autoreggenti. Io non mi dono affatto.

Vorrei scrivere una lettera d'amore come quella al mondo che non ha mai scritto a lei che guardava attraverso i vetri, una lettera al cosmo e poi un esercito di omini di mollica di pane marcerà scivolando lungo la mucosa dello stomaco, risalirà l'esofago e userà la mia lingua come trampolino per tuffarsi nell'identità. A uguale A. Non si torna indietro, non si procede.

Hai tutta la vita davanti. Ti lascerò morire. Ti guarderò mentre diventi giallo per il sangue che se ne va dalle guance e mentre la merda esce senza interruzione dal buco del culo che ormai non stringerai più per la paura.
Io starò davanti al tuo letto con un vassoio di bicchierini colmi di alcol puro, me li farò a uno a uno finché non vedrò l'ultima leggendaria lacrima sgorgare dai tuoi occhi sbarrati.

So aspettare.

Tu vincerai una maggiore purezza per la prossima vita.
E io diventerò la fodera dei sedili della tua macchina di mediocre rappresentante del terziario avanzato, per questa mia unica vanità, l'attesa.

Ne sarà valsa la pena.



(Dancing days - Led zeppelin)

lunedì 23 maggio 2011

Convivendo con le formiche ("I put a spell on you" di Screamin' Jay Hawkins, possibilmente nella versione di Nina Simone)

h.00:00 (cartoni animati, lanterne e gusci d'uovo)

Si potrebbe andare a dormire.

Sei una meraviglia, ti rifarei in scala per averti sempre con me nella tasca del cappotto.
È così che si comincia a morire, quando tutto si riduce a un oggetto da tasca.
Mi sembra che rimarrò sempre da sola.

Guarda che luna, guarda che mare, inizio a scricchiolare.
Il collo, il fianco destro, la colonna lombare.
Mi pare di aver sentito muovere anche le ossa del cranio.
La minaccia è lontana e oggi so che hai il terrore di essere visto.
Le mie ciotole di metallo piene di zuppa di latte e biscotti sono allineate accanto al letto.
Il mio compito è sbrodolarmi e sputare e mangiare come animale da compagnia, io, guscio vuoto dentro il quale scorre petrolio in quantità pressoché infinita.


Ti cerco dappertutto, nelle pieghe dei tuoi e miei tanti nomi: quando ti prendi cura di te, di me, quando vai dalla parrucchiera, ti tagli i capelli, ti fai il colore, ti metto l''ombretto, il rimmel, il rossetto, quando mi provi un vestito e gli specchi si spezzano tutti e le immagini sono troppe per essere frammenti di una sola.
È molto meglio stare in ciabatte, molto, molto meglio.

Come vedi, è stato perfettamente inutile salvarmi.

Le regole sono queste, per me e per te: non devi dirlo, devi farlo; non devi aver paura a toccare le piante quando hai le mestruazioni; non devi aver paura a lavarti i capelli.

Io non ascolto le tue parole: “Quando sei infetta e puzzi di ferro e cadi a pezzi furiosa, come una luna perduta incapace di fare luce, sei un pezzo di lana di vetro che uccide le persone perfettamente in silenzio.”

E tu sei in una prigione di malattia.


Non rispondermi mai con quella lingua tagliente come bisturi da svuotare le vertebre, una alla volta.

Stanotte, il martello l'ho preso solo per il chiodo.
Ho rotto tutte le finestre, non potevo fare a meno delle finestre, almeno entra un po' d'aria, un po' d'aria, almeno allargo i polmoni, entra il vento e non sbatte niente, volano le tende, entrano le foglie e anche le spine e io tremo tutta e mi concentro e mi dico che non è freddo, che è freddo ma devo rilassare le spalle: se mi espongo al vento e decido di non avere freddo, non avrò freddo e così io non ho freddo, non ho mai freddo.

Sono la malattia che hai avuto. "I don't care if you don't want me cause I'm yours, yours, yours anyhow..."

E tu sei il mio Terence, il mio Capitan Harlock, il mio Gig robot d'acciaio con le lame rotanti e il fucile a energia solare che mi squarcia tutta e mi penetra anche là dove i buchi sono rivestiti di pelle e tu ne trovi di nuovi pronti all'uso, mio Daitarn III, Lupin 3°, mio Lady Oscar con l'uccello, eroe dei miei stivali, assurdo, in pompa magna, che aspetta la mia bocca che si scava da sola.

Non si va mai in fondo a dire nulla, tutto è tagliato a metà, imposto come un troncone privo di senso pronto all'interpretazione dell'altro; niente mi completa, niente ti completa.
Raccontami tutto di me e non omettere nulla poiché gli altri hanno una vita di piccole pratiche inutili e io ho fatto il cambio di stagione.
Riempio l'armadio di voi umani alla velocità della delusione.

Volute di zucchero filato annebbiano la mia vista.

Mi sembra un'ottima idea quella di andare a dormire adesso.



h. 10:00 (caffè e bicarbonato)

Obblighi da tradurre in possibilità, obblighi in posizioni pestilenziali tipo porgimi l’altra guancia che sono qui o mena il can per l’aia che io sono sotto il tuo tetto.
Del fegato fritto e le animelle con salsa di cipolle in vino veritas, fammi una foto sopra il vetro di una finestra con una palla da biliardo come luce diffusa in millimetri finiti e percepiti.
Delle offese fammi fiumi ghiacciati come scultura dal ponte gettata in acqua azzurra acqua chiara. Ho tutti i bambini stesi ad asciugare sulle altalene e dai gelatai cercami i codici d’onore dei tabaccai e dei macellai.
Dai fiorai, fruttivendoli pervertiti all’ikebana, mi batte in testa tutto quello che ho mangiato ieri e oggi e ieri e oggi e ieri e quello che mangerò domani sta nella manica della giacca da cui nascono assi di carte truccate per le migliori occasioni mondane, perciò: voglio sapere tutto di te.
Nelle scollature più profonde scenda la cascata di cerume delle orecchie e tu accendimi i capelli di lacca verde, lamina di metallo nel cervello, frazione a dividere zone fra loro morte.


Che bella giornata, mi alzo, a media mattina apro la finestra e accendo la radio: una canzoncina francese con voce velata e le scintille che escono dalla pelle condiscono il cornetto e il cappuccino, dipingo le pareti di caffè danzando sulle pozze, ché dal soffitto piove olio fritto.

Ogni casa è una spugna e tu! Prepara le candele da ardere.



h.20:00 (guanti da cucina e secchio di plastica)

Ho in odio l’esser femmina, toglietemi tutto ma non l’orologio.
Toglietemi tutto l’apparato di riproduzione, soprattutto quelle due palle di vita marcia che, con amore, soffocano le piantine di speranza coltivata al buio, sotto la polvere del materasso. Toglietemi quelle due tonsille acide di vita uccisa, piccole zitelle inutili che strillano la loro inutile esistenza.
Toglietemi anfratti e caverne.
Ricoprite, cucite, via tutto.
Toglietemi anche le orecchie e i buchi del naso ché la bocca mi basta a darmi morte e piacere.
Ho in odio l’esser femmina e non vorrei esser maschio: voglio tornare pietra, granito, tufo poroso al vento, ramo ritorto dal mare, acqua e sabbia, carbone, petrolio immortale con sola funzione di bruciare.
Ho in odio l’esser femmina, di liquidi affamata, secca di vittorie e muta di mani, ardita di vocazioni e perduta, mancante di azione, rinchiusa nei pensieri esterni di menti possedute dalla soglia della casa, nata col desiderio dello specchio, disposta a tutto purché sia l’altro a darmi vita.
Libera dai fili, la distanza non muta. L’adescamento del dipendere pende dai cieli rimossi.
Ho in odio l’esser femmina, ho in odio l’esser in tutto disponibile e potente, l’essere in tutto il tutto per niente.



h. 00:00 (-)

Come fotografa di nulla, ho registrato ogni minimo spostamento della tua anima.
Le tue cellule, come carta da parati della mia camera, condiscono la tua assenza.
Sappi che non ti chiederò scusa per le assonanze.
Convivo con un andirivieni di formiche notturne.
Nient'altro da aggiungere.

venerdì 20 maggio 2011

Un altro tempo, un altro luogo/Another time, another place/Ein anderes Mal, einen anderen Ort

Non sapendo cosa scrivere, L. annotava gli oggetti che vedeva intorno a sé, i nomi delle strade e i numeri degli autobus. E poi? Poi iniziò a chiedere il nome ai passanti. Con il suo aspetto infantile, non riceveva che sorrisi. E così camminava anche con la pioggia e la neve che le confondevano i segni di penna sul foglio. Poco trucco, abiti sobri, tacchi altissimi e affilati. Di quelli non poteva fare a meno. Miglioravano la sua andatura e, sulla neve ghiacciata, fungevano da ramponi.
La vecchia sdraiata per terra, coperta di erbe aromatiche, le disse di chiamarsi A. Le offrì un mazzolino di salvia fiorita in cambio di una copiosa innaffiatura. Si sa, le erbette necessitano costantemente di acqua. Rimase a occhi aperti anche quando il getto d'acqua bollente le bruciò il cavo orale. Il profumo di lingua stufata attirò i gatti della zona. A. non abita più qui.
L'uomo con la giacca a quadri bianchi, blu e verdi si chiamava O. e aveva visto tutto. Aveva i baffi alla Dalì. Puzzavano di lucido da scarpe. Stava morendo di nostalgia per il suo nipotino. Purtroppo la figlia glielo aveva portato via e lui non poteva più stuprarlo. Con un mazzo di rosmarino tra le mani, si inginocchiò sull'asfalto urlando il nome del piccolo F.
Gli spazzini non fecero fatica a lavare i suoi resti con un paio di secchiate d'acqua e ammoniaca. Indossavano le mascherine ma si sentirono distintamente i loro nomi: G. e M.
L. rimase seduta sull'orlo del marciapiede anche quando si spensero le luci.
Prendeva appunti. Tornava a casa solo per dormire.

“D., quando sarò morta, curerai un'edizione di tutti i miei appunti? Ti lascio tutto.”
“Io sono più vecchio di te.”
“Ma io morirò prima. Non sarà un lavoro facile. Sono disordinata.”
“Lo so L., ti vuoi ammazzare?”
“Non ora. Tra un po'.”
“Uhm.”
“A volo d'angelo sul ghiaccio del fiume. Spiaccicata tra le anatre. O sopra.”
“Prenoti un volo per l'occasione o quando capita, capita? Certo che hai la testa piena di merda.”
“Avrei bisogno di una sonda per spurgarmi.”
“Potevi dirlo subito che volevi scopare.”
“Prima cancellerò le ultime battute.”

D. dormiva. Il vento scuoteva le serrande.
L., scarpe buone e taccuino pulito, prendeva un caffè all'incrocio tra la fermata di un autobus e quella di un tram. Non sapeva il nome del bar. Tanto meno i numeri dell'autobus e del tram. Tanto meno il nome delle strade. La mattina odorava di ammoniaca.

martedì 17 maggio 2011

Una zebra a pois

Mi sveglio con il suo lamento nelle orecchie. Mi alzo come mi trovo: maglietta, slip, senza reggiseno, scollata, aperta, con un seno fuori e uno dentro. Mi sistemo mentre attraverso il corridoio, presa dall'ansia della catastrofe: voluta, allontanata, elastico estenuante di tutte le notti, di tutti i giorni, di questi tempi.
“Che ti succede?”
“Non lo so.”
Lo guardo dall'alto, senza avvicinarmi. Lo incalzo, un po' irritata, un po' intimorita.
“Che c'è? Che ti succede?”
“Non lo so. Quando chiudo gli occhi, non so, mi viene un'agitazione...”
“Non respiri bene?”
“No, no, respiro; respiro anche a bocca chiusa. Guarda.”
Ansima.
“Va bene. Basta.”
“Non dormo. Non riesco a dormire.”
“Ho capito. Devo rimanere qui?”
“Non lo so. No.”
Torno a letto. E' ancora caldo. Cerco un'altra voce sul cuscino. Silenzio. Non la trovo. Non c'è. Ho ancora il suo lamento nelle orecchie.
Mi alzo, mi apposto nel corridoio per controllare. Si lamenta.
Ingoio la sconfitta e vado a prendere i miei cuscini. I capelli solo sul mio sudore, solo col mio odore, almeno quello. Mi stendo accanto a lui, il più lontano possibile.
Lo sento rantolare, il respiro che fischia. Ogni tanto si calma ma subito dopo l'affanno riprende.
E' sveglio. Anch'io ho il respiro pesante. Mi prende la mano, gli occhi pieni di acqua giallastra.
“Come faccio?”
“Devi stare calmo. Se ti agiti, è peggio.”
Si alza per pisciare nel contenitore di plastica che tiene accanto al letto. Piscia ogni ora.
Gli volto le spalle. Forse riesco a dormire un paio d'ore.
Sogno una foto in cornice: io sul letto, appoggiata su di lui, con la mia schiena sul suo addome.
La foto si anima, io mi alzo dal letto, lui rimane. La sua erezione è del tutto innaturale per un uomo di ottantatre anni. Mi allontano, lui canta: Una zebra a pois, è una grande novità, me l'ha data un marajà, vecchio amico di papà...una zebra a pois, beh, che c'è? A pois, a pois, a pois...
Mi sveglio rannicchiata sul bordo del letto.
Alle cinque arriva un po' di luce. Il vecchio dorme, io mi alzo.
Vado in bagno, svuoto il pappagallo pieno del suo piscio notturno. Lo rimetto a posto.
Guardo il vecchio. All'improvviso le mie mani sono lì, chiuse, a un centimetro dalla sua bocca storta.
Vado a lavarmi le mani e la faccia.
Nella mia camera c'è ancora buio. Immagino che rinascerò più umana. La prossima volta.
Tra qualche ora mio padre si alzerà e vorrà che lo aiuti a fare la doccia.
L'inquilino del piano di sopra si è svegliato, il cane di una mia amica d'infanzia abbaia qui sotto. Guardo fuori dalla finestra. A pochi metri da me, un ragazzino cinese piscia fuori dal balcone.
Che farà in piedi, a quest'ora?

domenica 15 maggio 2011

Cani

Prendo: valigia, contanti, carta di credito, documenti.
Lascio: chiavi di casa, telefono, libretto dell’automobile.
Se incontro qualcuno, dico: parto per un paio di giorni.
Appena fuori dalla porta, l’agguato della vicina.
“Sempre in partenza.”
“Torno tra un paio di giorni.”
“Beata te che fai sempre la turista!”
Nell'ordine: prendo il primo autobus che passa, mi allontano dal mio quartiere, entro in un bar, chiedo un caffè, chiamo un taxi, mi faccio accompagnare alla stazione, scelgo una meta non troppo lontana, faccio il biglietto.
Il treno parte dopo mezz’ora ma è già sul binario. Salgo e mi accomodo su una poltroncina singola, vicino alla porta scorrevole. Il viaggio durerà tre ore e un quarto. Quando arriverò, sarà buio. Rimango incollata al vetro del finestrino controllando il riflesso del passeggero di fronte a me. Non bado a niente. Fingo solo di essere concentrata su pensieri di importanza capitale.

La stazione di arrivo non ha pensiline. È notte. Scendo le scale. Mi blocco. In fondo, intravedo un corridoio poco illuminato. Il buio respira tranquillamente in attesa del mio passaggio. Può aspettare, torno indietro. Controllo gli orari delle partenze. Il prossimo treno si fermerà all’alba. Sicuramente all’ingresso della stazione c'è una biglietteria automatica. Per il momento, aspetto qui.
Ho freddo. Vedo un'ombra che striscia lungo uno dei binari. Si ingigantisce. Si avvicina. Mi è addosso. Ha il fiato puzzolente.
Un labrador color miele, occhi castani, mi ha messo il muso in faccia.
Mi allontano. Mi segue. Richiama la mia attenzione con un breve mugolio. Mi volto. Gesticolo, dicendogli di andarsene. Salta. Mi siedo. Mi mette le zampe in grembo. Non voglio compagnia.
Non sopporto gli esseri imploranti. Hanno sete, hanno fame, si sentono male, vomitano, mangiano sassi e merda secca, vanno operati, hanno bisogno di gocce negli occhi, vanno puliti, spazzolati e liberati dalle zecche, rassicurati, coccolati, massaggiati.
Smetti di ansimare. Non ti conosco, non ti voglio, non ti sfamerò. Niente possesso e devozione senza argini. Non ti porterò con me. Togliti di torno.
Sposto bruscamente le zampe.
Torna a mangiare spazzatura, rivolgiti alle signore con le borse di stoffa a fiori e i sacchetti di carta pieni di polpettine di soia e erbette di campo. Ti sorrideranno, così le potrai fregare con la tua bavetta piagnucolosa. Non ho bisogno della tua simpatia di cucciolo storto, con un occhio cieco e uno azzurro.
Giusto per concludere la conversazione, gli urlo di andarsene e tiro un calcio goffo nell’aria. Il cane si allontana e, dopo aver annusato il marciapiede vuoto, torna di corsa, con l’aria di attendersi qualcosa di più divertente.
Attraverso il binario. Mi segue. Cammino sul marciapiede in lungo e in largo. Mi segue sempre.
Va bene, l’hai voluto tu. La battuta di un noir anni quaranta non mi dona e non si adatta alla situazione. Devo ricordarmelo, in ogni caso l’hai voluto tu.
Inizio a scendere le scale strisciando lungo la parete e chiudo gli occhi. Percepisco una sottile variazione di luce. Sento un gocciolio.
Se la mia vita fosse un film, che film sarebbe? In un melodramma, protagonista Lana Turner, avrei il ruolo secondario di triste zitella, sacrificata alla bionda dea del sesso; in un film rosa trash sarei la piccola aspirante cenerentola sfortunata, senza speranza di essere sverginata dal principe; in un film dell'orrore, sarei la prima vittima, quella idiota che corre fra le braccia dell'incubo, quella che muore dopo dieci minuti dall’inizio perché attraversa un corridoio buio dove si sente gocciolare ma non ci sono rubinetti nelle vicinanze. E non piove dal soffitto.
Torno indietro. Il cane mi aspetta con la testa tra le sbarre della ringhiera, gocciolando bava e dimenando la coda. Gli sono mancata.
Va bene, l’hai voluto tu. In un noir, non sarei il cattivo ma nemmeno il detective. Sarei sempre la vittima, stupida e imprudente, quella dalle labbra tremanti, salvata appena in tempo dall'eroe di turno, dopo aver sacrificato le vite di almeno un paio di volenterosi innocenti.
Scendo le scale. Lungo il corridoio, l’unica fonte di luce è rappresentata da una fila di bacheche pubblicitarie. I negozi più antichi della città tengono a dirmi che rappresentano degnamente le tradizioni del luogo.
Il cane è in cima alle scale. Scodinzola. Mugola. Sbava. Il corridoio sembra vuoto ma non posso esserne sicura.
Il cane, adesso, sta ansimando alle mie ginocchia. Se mi aggrediranno, mi difenderà. Spero. Uccideranno lui per primo. Spero. Vado. Non c’è nessuno per davvero.
Finalmente sono fuori.
Mi guardo intorno, alla ricerca del solito affittacamere nascosto da un portoncino con le sbarre di ottone oppure di una pensione con le tende impastate di polvere e fumo. E questo luogo, che rispetta un certo numero di tradizioni, non si smentisce. L'unico lampione funzionante illumina il cartello di un perfetto esempio di albergo a una stella. Lì, il cane non mi seguirà.
Suono il campanello. La serratura elettrica fa uno scatto moscio. Appena apro il portone, il portiere mi urla che non accettano animali.
“Non è mio.”
“Già.”
E tace, finché non riesco goffamente a far uscire il mio cane ombra.
“Una singola.”
“Già.”
Segue un lungo silenzio, poi: “N.11, bagno in corridoio, documento valido, pagamento in anticipo, il cane non entra.”
“Non è mio.”
“Già.”
Mi arrendo. Gli presento diligentemente quello che mi ha chiesto, prendo la chiave e vado in camera.
Dalla finestra vedo la strada, la stazione e il cane. Guarda in su, verso la luce della mia finestra, scodinzola. Chiudo le tende. Proverò a dormire.
Il copriletto è un falso damascato sintetico, rosso rubino. La tappezzeria richiama lo stesso motivo ma è un tono più chiara, come le imbottiture delle sedie, dallo scheletro di legno scuro e lucido. Mi agito nel letto; l'alternanza di rossi e marroni mi soffoca.
Appena sveglia, chiedo la colazione in camera.
Il portiere, lo stesso della notte, entra con un vassoio, lo appoggia sulla piccola scrivania vicino alla finestra: “Apro le tende?”
“No, grazie.”
Accende la luce ed esce.
Sono sicura che sia ancora lì. Da bravo cane, non molla facilmente. Vedremo.
Finisco tutto quello che trovo sul vassoio: un cappuccino senza schiuma, due brioche confezionate, un cioccolatino fondente e un bicchiere d'acqua naturale. Mi faccio una doccia calda, mi spalmo una crema per il corpo, una di quelle che non uso mai, quella più grassa, così devo massaggiarmi a lungo prima di farla assorbire. Asciugo i capelli con cura, domandoli con la spazzola, come non faccio mai. Indosso collant finissimi, mi vesto con lentezza e attenzione. Stendo un velo di fondotinta sul viso, trucco occhi e bocca come se dovessi incontrare chi misurerà la sua attrazione dalla cura del mio aspetto.
Ho bisogno d'aria. Mi avvicino alla finestra, infilo una mano dentro le tende e apro uno spiraglio, senza guardare. Sistemo i cuscini, mi siedo sul letto con il libro che mi accompagna sin dalla partenza.
È il momento di ricominciare a leggerlo dall'inizio. Lo apro, la prima pagina si stacca e scivola sul letto.
I tabelloni con i puntini arancio che scorrono o i piccoli quadrati che si muovono, come girandole, ogni volta che una partenza cede il posto a un'altra, i passeggeri che intralciano gli androni, i corridoi, i marciapiedi, le sale d'aspetto con un ubriaco ogni tre poltrone e io, che mi muovo, evitandoli come in una gara di ballo all'ultimo sangue, e poi la pagina numero uno che ha un angolo consumato. Quello in alto a destra. Sbriciolato in una stanza che sembra bastare a se stessa.
Mi addormento da estranea su un letto urticante di cimici.
Mi sveglio con un rivolo di saliva a un angolo della bocca. Mi asciugo. Guardo la macchia rossa sulle dita. Finisco di tirare via il rossetto strofinando le labbra sugli avambracci. Chiudo gli occhi e li sigillo spalmando il mascara con i polpastrelli.
Sono così concentrata in questa operazione che quando sento bussare alla porta scatto in piedi.
“Chi è?”
“Sono il portiere. Può aprire?”
“Un momento. No, ora no, scendo io tra un po'.”
“Già.”
Corro in bagno a lavarmi la faccia. Mi lego i capelli.
Nell'atrio, trovo il portiere che guarda fuori dalla porta a vetri. Si volta bruscamente.
“Ha deciso di rimanere anche questa notte? E' già tardi, dovrei farle pagare la stanza.”
“Ho deciso di rimanere.”
“Già. Pagamento in anticipo. Le rendo il documento.”
Salgo in camera a prendere i soldi. Forse potrei anche togliermi le scarpe col tacco.
Chiedo al portiere se è possibile avere la cena in camera. Mi guarda con commiserazione. “Non facciamo servizio ristorante.”
“Ma stamani...”
“Siamo convenzionati con il bar della stazione.”
“Potrei ordinare qualcosa da fuori?”
Sbatte un elenco telefonico sul banco.
“Già.”
Sotto lo sguardo del portiere, telefono al primo servizio a domicilio che trovo. Ordino una quantità di cibo sufficiente per almeno tre persone e mi siedo ad aspettare. L'atrio è freddo e silenzioso, rosso e marrone. Un odore di caffè si diffonde dalla stanza dietro il banco del portiere. Lo guardo.
“Vorrebbe un caffè?”
“Magari.”
Mi porta una tazzina senza piattino, come fossi una sua parente. D'altra parte è il suo caffè, non è tenuto a servirmi.
“Se ha intenzione di dare da mangiare al cane, le devo chiedere di non farlo davanti alla porta.”
“Quale cane?”
Silenzio.
“Già.”
Bevo il caffè evitando di guardare fuori.

martedì 10 maggio 2011

nel giorno di ieri

chiedere a carnefici di correre a salvarmi
a mangiare quando non ci va - si mangia quello che non ci va
tu con il cucchiaio in mano che porgi la tua minestra
tu che mi chiedi di leccare il tuo coltello
madre di sborra
padre di niente
ecco la scena - tazza di farina infornata e acqua, cucchiaio enorme e facciamo più in fretta
tu che illumini i tuoi cucchiai fette di luna
le quattro del pomeriggio che sembrano il tramonto - per la malinconia che mi tocca tracannare

ho aperto un negozio grande come un circo

venerdì 6 maggio 2011

Distrazione

Una volta ho scritto: Ho chiesto di morire pur di essere vendicata.
Nessuno mi vendicherà. Quando morirò sarà tutto silenzio. Tutti gireranno gli occhi un'altra volta. Le mie colpe riempiranno la bara fino a scoppiare. Come candele mangiafumo, annulleranno i gas prodotti dal mio corpo in putrefazione con tripudio venefico-esplosivo.

Continuo a tacere, non andrò da nessuna parte finché non sarà finita e non sarà finita finché non me ne andrò. Potresti dirmi come?
Compra un paio di autoreggenti nere, finissime. Indossale. Ti voglio femminile, raffinata, le unghie laccate di rosse. Certo, lo faccio. Indossa le scarpe che ti ho regalato. Fotografati. Lo faccio, sì, in onore della tua grossolana ovvietà. Sfila gli slip. Cerca qualcosa da infilarti nella fica. Qualsiasi cosa, un cetriolo, una zucchina, anche il tubetto del dentifricio, se è ancora da iniziare. Certo, lo faccio. Gli ortaggi sono appena usciti dal frigorifero. Tengo per un po' il cetriolo in bocca e poi lo scaldo fra le tette, magari ti mando una foto. Me lo infilo fino in fondo e te lo dico. Mi prende la smania. Faccio un'altra foto, lo rimetto in frigo dopo averlo sciacquato bene. Il giorno dopo lo trovo tutto raggrinzito ma ancora utilizzabile e allora lo rifaccio.
A questo punto, credo che sia ora di fare un'insalata.
Ciao mio caro, un bacio dolce, così si dice, o meglio, salute! I cetrioli fanno bene alla pelle.
Peccato che tu non possa partecipare al banchetto. Avresti apprezzato.

Sì, sono la medusa che tu immagini, che pietrifica ogni slancio candido. In attesa di capitolare.

Ma mi distraggo.
Dunque.
Una volta.
Ho scritto.
Ho chiesto di morire pur di essere vendicata.
Ma non ci sono vendicatori in giro. Nessun giustiziere della notte per me.
E io non mi vendico da viva, sia mai.
Sai, mi manca quella lieve ironia che imperversa dappertutto, che è buona per tutto, avvolge tutto. Cambia tutto.
Distoglie da tutto.